lunedì 24 agosto 2009
Il serpente e l'arcobaleno (Wes Craven, 1988)
Senza dubbio il miglior film di Wes Craven (creatore delle saghe di Nightmare e Scream). A sorprendere è l’elaborazione del concetto di paura, scoperchiato alla radice, che nonostante viva di pochi momenti esplicitamente horror è sviluppato in modo del tutto originale. Il serpente e l’arcobaleno è grossolanamente considerato come un film sugli zombi (è sostanzialmente un horror d’ambientazione), ma è lontano parente dei prodotti di George A. Romero. Wes Craven si rifà all’esoterismo che gira intorno alla leggenda degli zombi, allacciandosi alla prima idea che aveva prodotto il cinema sui cosiddetti morti viventi (vedi Ho camminato con uno zombie, 1943 e White Zombie del 1932): gli zombi sono l’ultimo step di un processo di annientamento umano praticato tramite l’uso della magia nera. Ed è proprio questo che l’antropologo (Bill Pullman), protagonista del film, cerca di scoprire partendo per Haiti ed imbattendosi nelle “psichedeliche” tradizioni locali. Il suo diviene immediatamente un allucinato viaggio negli inferi dove la realtà cede il passo ad una condizione mentale prossima all’esaurimento nervoso. Il sottomessaggio che ci lascia Wes Craven è puramente politico perché l’utilità della suddetta pratica vudù è presto svelata: il regime monarchico dei tonton macoute (sotto la supervisione del tiranno Francoise “Papa Doc” Duvalier) riduce ad uno stato vegetale chi si frappone sul suo cammino, attuando una vera e propria strategia del terrore. Dopo aver visto questo film è strano associarlo a Wes Craven, perché del tutto privo della consueta ironia adoperata in altri lavori come Scream, Nightmare e La casa nera. Purtroppo gli ultimi prodotti del regista sono inequivocabilmente scandalosi (Red Eye, 2005 e Cursed – Il maleficio, 2005), segnale di una carriera da lui stesso distrutta con l’inizio della saga di Scream (considerato come simpatica presa in giro dei luoghi comuni dell’horror ma secondo me null’altro è che una cagata) ed è appunto doveroso ripescare questo piccolo capolavoro, al fine di riesumare la chiave che si nasconde dietro qualsivoglia opera horror: la paura. Voto 7,5.
venerdì 14 agosto 2009
Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961)
Tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote e girato da Blake Edwards (La pantera rosa, Hollywood party), Colazione da Tiffany era stato inizialmente pensato per Marilyn Monroe. Oggi l’idea ci fa rabbrividire. Essendo passato alla storia per l’incantevole connubio tra eleganze e stile, incorporati da Audrey Hepburn, pensare a Marilyn Monroe nei panni di Holly Golightly appare assurdo. La differenza fisica è notevole, lo charme non è affatto comparabile eppure bisogna ammettere che Marilyn (regina della commedia sofisticata) nei panni della ragazza affascinata dal dio-denaro non avrebbe impallidito al confronto. Ma soltanto Audrey poteva restituire al personaggio la confusione lacerante e la fragilità sommessa di chi insegue il sogno di una vita agiata, illudendosi di poter trovare così la felicità. E’ ciò che succede in fondo quando ci ritroviamo a criticare chi sceglie un Ricucci o un Briatore come compagno, e farsene una ragione è alquanto difficile. Holly si definisce una ragazza libera che nessun nome o sentimento potrà imprigionare ma, come le dice Paul (George Peppard), scrittore di discutibile successo ed innamorato di Holly, “resterai per sempre in gabbia anche quando fuggirai perché prima o poi ti imbatterai di nuovo in te stessa”. Edwards mette alla berlina i vizi ed i vezzi dell’alta società ed il party scatenato che si tiene a casa di Holly ne è la conferma: una donna totalmente ubriaca si fissa allo specchio ridendo come una matta, dopo pochi secondi la ritroviamo nello stesso luogo ma in totale depressione, il tutto a testimoniare esplicitamente che i soldi non fanno la felicità. Colazione da Tiffany è una galleria immortale di scene memorabili; su tutte la Hepburn che canta Moon River (di Henry Mancini) e la sosta all’alba dinanzi alle vetrine di Tiffany. Oggi il volto della Hepburn è ovunque; sulle borse, nei negozi, nella mia stanzetta e lì dove ci sia da usare un sinonimo di eleganza. Il suo sguardo resta inimitabile. Il suo sorriso è il mio intimo rifugio. Voto 8.
lunedì 10 agosto 2009
Cover boy. L’ultima rivoluzione (Carmine Amoroso, 2007)
Frutto di un efficace passaparola, chiave del successo di un altro film d’autore come Il vento fa il suo giro (2007), Cover boy ha affrontato decine di festival prima di trovare la tanto attesa distribuzione nelle sale, ed osservando il prodotto finito mi appare inconcepibile condividere tale paradosso. La storia, quanto mai vicina al processo di interscambio culturale coatto tra italiani ed immigrati in cerca di gloria, parla di un’amicizia sincera tra un romeno, Ioan (Eduard Gabia), appena giunto nello Stivale ed un romano “per usucapione”, Michele (Luca Lionello), trasferitosi dall’Abruzzo a Roma per ritrovarsi a lavorare come addetto alle pulizie nella Stazione Termini. Insieme coltivano il sogno di aprire un ristorante in Romania, ma le strade ben presto si dividono: Michele, silurato dalle falle devastanti del precariato, scopre il sapore di una vita umiliante mentre Ioan, adocchiato da una fotografa (Chiara Caselli), arriva a Torino per intraprendere la carriera da modello. Nell’attimo in cui si separano (la scena è stupenda e struggente) sappiamo che non si rincontreranno mai più, se non in un’onirica illusione. Parlare di un’opera intima è senza dubbio adeguato perché l’Italia dei precari e dei sogni infranti è la nostra Italia; “Se non hai qualcuno che ti aiuta sei uno straniero in patria” dice Michele con lapalissiano riferimento alla gerarchia delle raccomandazioni, cancro incurabile della nostra società. La sequenza finale è una piccola concessione retorica, non banale, ma utile per tenere fuori dalla nostra portata la dimensione della tragedia. Voto 8,5.
venerdì 7 agosto 2009
Un americano a Roma (Steno, 1954)
Uno dei capolavori della farsa tricolore, antecedente la Commedia all’italiana degli anni ’60, Un americano a Roma è il quadro espositivo della tendenza imitativa del vecchio continente nei confronti del mondo “immaginifico” degli Stati Uniti d’America. Il protagonista, Nando Moriconi (Alberto Sordi), nonostante romano fino al midollo, si sente a tutti gli effetti un cittadino del Kansas City, si ostina a mangiare marmellata, mostarda, pane e latte a cena, rinnegando (pentendosene repentinamente) il tradizionale piatto di maccheroni (“Tu mi hai provocato ed io te distruggo!”), va al cinema a vedere soltanto film hollywoodiani, si veste con dei jeans d’oltreoceano e blatera un americano raffazzonato (totalmente inesplicabile) farcito da una vagonata di “Wazzgherà”. Nel nome del conformismo americano Nando (ma lui sogna di trasformarsi in Santi Byron), arriva addirittura a minacciare il suicidio pur di giungere negli States. Il film risulta, dalla seconda metà, eccessivamente frammentario riducendosi ad una serie di sketch dove spicca il talento istrionico dell’Albertone nazionale. L’ultima “gag” è divertentissima con l’irruzione in diretta di Nando, nudo, all’interno di una trasmissione televisiva. Le critiche al conformismo sono esplicite ed evidenziano la necessità di ritrovare una propria identità al di fuori dei nostri confini. Ma il concetto è in realtà illusorio: gli stessi americani non comprendono il linguaggio di Nando, i maccheroni rivestono in ogni caso la cena perfetta ed il distributore d’acqua, classico dell’ufficio americano (come spiega alla madre), eroga un liquido che fa letteralmente schifo. Alla stesura della sceneggiatura oltre a Steno (Stefano Vanzina) hanno partecipato anche Alessandro Continenza, Ettore Scola, lo stesso Sordi e udite, udite, Lucio Fulci. Voto:7
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