martedì 3 novembre 2009

Fortapasc (Marco Risi, 2009)



Dopo Biutiful Cauntri (2007), documentario shock sullo “stoccaggio” dei rifiuti tossici in Campania, ancora un titolo “partenopeizzato” che suona come un epitaffio. “Non siamo a Fort Apache” – grida il sindaco di Torre Annunziata dopo l’ennesima strage di camorra. Di certo lo era Giancarlo Siani (Libero De Rienzo), cronista “abusivo” per Il Mattino, che il 23 settembre 1985 fu ucciso dai sicari della camorra mentre era di ritorno a casa a bordo della sua Citroen Mehari. Un’auto verde quasi da safari, dal tetto scoperto; un paradosso per chi corre tra la vita e la morte. Siani, morto a 26 anni, aveva ficcato il naso in faccende bollenti rischiando di scottarsi. Più che infastidire i vertici della camorra aveva osato scuotere i Palazzi: appalti sospetti, alleanze collaterali, carabinieri inermi e una gragnola di omicidi. Marco Risi (figlio di Dino, a cui il film è dedicato) ci restituisce l’immagine fragile di un ragazzo (in)cosciente delle proprie azioni, scomodo. Alla Peppino Impastato. In quel caso a storcere il naso erano I Badalamenti, qui sono i Gionta, i Bardellino e i Nuvoletta. Un po’ troppo per un giovane neanche trentenne, dal volto pulito. La camorra vive di sfarzi, di riti plateali, di enfatiche tradizioni mentre il popolo ascolta, adora, idolatra e marcisce dentro. E Siani lottava contro il silenzio, spinto da una matta voglia di raccontare, forse inconsapevole del senso intrinseco dei propri gesti. Il capo (Ernesto Mahieux) l’aveva avvertito :”Tu devi parlare di cronaca nera, non di camorra”.
Marco Risi compie un lavoro onesto sfoggiando un certo (ab)uso del flash forward (montaggi alternati tra due scene che si svolgono in luoghi e tempi diversi – vedere l’inizio di 36 Quai des Orfevres per capire) e dando il meglio di sé nella riproposizione della strage di Sant’ Alessandro (26 agosto 1984) quando un gruppo di killer, assiepato in un autobus, falcidiò il clan dei Gionta uccidendo 8 uomini. Dinanzi a film del genere è sempre difficile attribuire un giudizio disincantato. L’eroe che combatte contro i mulini a vento è il valore aggiunto di qualsiasi ritratto epico e congelare le emozioni risulta impossibile. Servirà tutto ciò a scuotere le coscienze? Io dico di no. Ma il cinema non ha l’obbligo di lasciare un messaggio. Il cinema va amato per quello che è. Voto 8.

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