mercoledì 14 aprile 2010

Hostel (Eli Roth, 2005)



Cast: Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson
Genere: Horror
Produzione: USA
Durata: 90’

Il nuovo millennio del cinema horror ha avuto inizio con il grande boom (e relativo saccheggio a stelle e strisce) del “mercato” orientale: The Ring, Dark Water, Ju-On, Two Sister e via dicendo. La paura a culmine di un’attesa sorretta da pargoletti ululanti, specchi meschini e sofferenze recondite. Sangue e torture assenti perché non conformi al dogma portante delle Ghost Story. Successo “umile ma onesto” ai botteghini, soprattutto grazie all’exploit di The Ring (remake di Ringu). Le Storie di Fantasmi Cinesi sembrano funzionare perché mirate a scardinare il lato introspettivo del genere; a spaventarci non sono mostri, alieni o serial killer ma gli scheletri nell’armadio. Eppure siamo nel 2002; il 90% della popolazione terrestre è col nasino sulla mappa nel tentativo di capire dove cavolo sia finito quel marpione di Bin Laden. Il nostro vicino crede di aver visto il Mullah Omar nella salumeria sotto casa. Tutti, improvvisatici filoamericani for a day, sentiamo una rabbia ribollire nelle vene al ricordo di quelle torri così imponenti, così maestose, inno all’egocentrismo made in Usa, buttate giù con tanta grazia da 2 boeing guidati da una combriccola di “martiri” neopatentati. Dobbiamo pur sfogarci, dar qualcosa in pasto a quella sensazione di vendetta, ahimè inappagata. Il pubblico post 11 settembre, during guerra in Iraq e inside Guantanamo ha esplicito bisogno di violenza gratuita, e l’horror giunge in soccorso come uno Steven Seagal d’antan. Saw fa da apripista; l’Enigmistica del titolo ci ricorda che abbiamo tanto peccato e un po’ di sana sofferenza fisica ci condurrà all’espiazione delle nostre colpe. E vai con le atrocità inflitte per mezzo di seghetti e altri oggetti dai denti irti e spigolosi. Nessuno lo sa ma è nato il Torture porn. Cos’è il Torture porn? A spiegarcelo giunge Hostel, nato dalla mente contorta di Eli Roth, fedele scudiero di un altro essere dalla mente contorta, Quentin Tarantino. Il meccanismo narrativo è una fusione tra lo schema classico dell’horror bucolico partorito da Non aprite quella porta e il nuovo concetto di horror moderno. C’è quindi una prima parte scritta su misura per delineare l’idiozia dei giovani protagonisti; 2 americani e un islandese in gita “di piacere” pronti a trombarsi l’Europa in lungo e in largo. Francia, Svizzera, Belgio e prossima fermata: Barcellona. Ma esiste un posticino migliore dove le ragazze ti si concedono anche se non hai le Extraordinary Measures di Rocco Siffredi. Quel posto si chiama Slovacchia. Entrate nell’ostello e “dite che vi ci ho mandato io”; parole di un fidato tossico dell’est, parole sante. Il tempo di posare le valigie nella stanze e due ragazze (una bionda e una mora, come le veline) senza mezzi termini ti fanno capire che quella sera un’orgia a 4 sarà il minimo sindacale, le fondamenta dalle quali partire per una vacanza a base di sesso e alcool. Voi, malati spettatori, seduti in poltrona state già contattando la vostra agenzia di viaggio. Ma ecco cominciare la seconda parte di cui sopra. Ecco irrompere il dramma. Ecco la svolta a ricordarci che Hostel è prima di tutto un horror, non un porno softcore. I ragazzi scompaiono uno ad uno senza destare sospetti, intontiti dalle fanciulle e finiti tra le grinfie di ricchi pazzoidi disposti a sborsare cifre esorbitanti pur di martoriare qualche innocente. Spendi un tot e scegli il/la malcapitato/a. Come lo vuoi? Americano? Con gli occhi a mandorla? Zoppo? Stupido? Esaurito? Abbiamo di tutto. La scena del crimine è una stanza fetida (il Luogo Comune del terzo millennio), il cui buio è spezzato da una luce fioca. Arredamento spartano: un mobiletto su cui sfilano gli attrezzi del mestiere (trapani, bisturi, pinze, seghe, fiamme ossidriche…) e una sedia ferruginosa per la “merce” da brutalizzare. Si aprano le danze. Scorrano fiotti di sangue. Amputazioni e ustioni facciali regnino incontrastate.
Qual è il messaggio di Hostel? Non credete a quello spot secondo il quale ci sono cose che non hanno prezzo. Il consumismo ci insegna che il Verdone è come un gigantesco motore che girare il mondo fa. E noi dinanzi al suo potere chiniamo il capo, vittime e carnefici della dimensione contemporanea da noi stessi creata. Nulla più stuzzica l’animo, nulla sa emozionarci. Allora perché non togliere la valvola alle nostre perversioni? Basta avere quello, il Verdone. E se non lo tieni ti attacchi, aspetti i saldi. Ma devi accontentarti della merce accantonata. Roba scadente e taglie grandi. Voto – 7.

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