giovedì 8 aprile 2010
King Kong (Peter Jackson, 2005)
Cast: Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody
Genere: Avv/Fant.
Durata: 189’
Rivedere un film di 3 ore per la quarta volta non è sinonimo di pura follia; alla base di codesto insano gesto risiede un perché. King Kong è il primo grande eroe tragico del firmamento cinematografico. Lo sa bene il neozelandese Peter Jackson che con ben 207 milioni di dollari di budget (22 messi di tasca propria) ha realizzato il suo personale sogno nel cassetto: restituire con tecniche digitali moderne nuova linfa al gorilla nato (almeno sullo schermo) nel 1933 dal sodalizio Cooper – Schoedsack. L’opera è infatti più fedele all’originale che al rifacimento inefficace del 1976 di Guillermin e lo si nota da alcuni sottili riferimenti e dalla data nel quale l’epopea è ambientata: appunto il 1933. A New York impazza la crisi economica e il cinico regista Carl Denham ingaggia l’attrice malmessa Anne per girare un documentario su un’isola deserta. A fargli compagnia una troupe sprovvista, tanti marinai avventurieri e lo sceneggiatore Jack Driscoli. L’isola purtroppo non è affatto disabitata; presenti all’appello alcune tribù dalle tradizioni discutibili, dinosauri e insetti d’ogni specie e un gorillone alto 8 metri a cui i nativi donano in sacrificio giovani fanciulle. La malcapitata sarà proprio l’attrice Anne della quale lo scimmione si innamorerà follemente. Il resto è noto, con gran finale sull’Empire State Building. Peter Jackson porta con sé in ogni film il suo atavico difetto di lavorazione; la voglia di strafare. La parte centrale è infinitamente pleonastica dettata da inseguimenti incredibili (cioè non-credibili) e lotte ferine degne di Godzilliana memoria. E l’ingombrante eco di Jurassic Park più che far capolino nel racconto ne prende le redini a tutti gli effetti. Eppure King Kong è un film riuscito. La sua potenza sta nei teneri momenti di intimità tra la donna e il gorilla. L’iniziale e ovvia incompatibilità che col tempo assume i connotati di un linguaggio universale: quello dell’amore, non un amore qualsiasi, l’amore impossibile, irrealizzabile, che scorre nelle viscere, l’amore tra la Bella e la Bestia. Ancora una volta l’istinto, composto da gesti “selvaggi”, contro la ragione, rappresentata dal becero consumismo occidentale a rimembrarci la reale indole dell’essere umano; cosa noi siamo, o meglio eravamo, nel nostro inconscio e cosa siamo diventati nel moderno e ambiguo concetto di civilizzazione. Zittire l’istinto, l’impulsività, palesa la morte dell’anima. Meglio morire dopo aver lottato, dopo esser saliti lassù con la propria amata, sulla punta di un palazzo, a guardare il tramonto per incrociare un’ultima volta lo sguardo con la Natura, pronti ad urlare e a batterci il petto proprio lì dove il cuore ci ricorda che siamo vivi, mai domi, mai schiavi. Voto – 8.
Quand’ecco la bestia guardò in volto la bella, la bella fermò la bestia. E da quel giorno in poi fu come morta.
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La prima di queste quattro volte lo vedemmo insieme al cinema. Un film piacevole, oltre che per i temi di cui hai parlato, anche a mio avviso per l'ottima fotografia. Concordo su quella parte centrale fatta apposta per meravigliare, più in generale tutti i film di Jackon sembrano sempre troppo corti rispetto a quanto lui vorrebbe metterci dentro ;)
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