mercoledì 30 settembre 2009

Doomsday (Neil Marshall, 2008)

Ennesimo esempio a parer mio di prodotto fortemente sopravvalutato. Lessi mesi fa svariate recensioni positive a riguardo, che oltre a parlare di ottimo film tendevano a confermare le doti narrative di Neil Marshall, apprezzato regista (e qui concordo) di The descent – Discesa nelle tenebre, tra i pochi horror salvabili del nuovo millennio. La trama, in un periodo in cui la suinomania impazza, calza a pennello: in seguito al diffondersi di un’epidemia assassina, la Scozia, a seguito della costruzione di un’enorme barriera, viene separata dal resto dell’isola britannica. Dopo trent’anni il virus però torna a mieter vittima a Londra e i “vertici” decidono di organizzare una spedizione che possa recuperare, tra gli anfratti della regione scozzese, qualche sopravvissuto sano a tutti gli effetti, al fine di ricavarne un antidoto. Il canovaccio tutto sommato non è male e l’incipit catastrofico, che ha qualcosa da spartire con Io sono leggenda, è notevole. Trascorsi i primi 20 minuti benauguranti, Doomsday si tramuta improvvisamente in un accozzaglia di topoi cinematografici. C’è di tutto, davvero di tutto, ma nulla di originale: è presente la tribù di emarginati (1997: Fuga da New York) in stile punk-rock (Mad Max), la sfida nell’arena (Il gladiatore grida vendetta) e la colonna sonora, e non solo, sembra scopiazzata dallo score di 28 settimane dopo (che consiglio vivamente di ascoltare). Doomsday può forse piacere ai fan dell’action futuristico ma per i veri cinefili sarà difficile mandar giù gli innumerevoli rimandi ad altre opere senza dubbio migliori. Neil Marshall è un cineasta che sa comunque il fatto suo, muovendosi con padronanza dei mezzi e mostrando la sua passione per il genere femminile (interessante, ma in un ruolo stereotipato, Rhona Mitra), ancora una volta protagonista di un suo film. “Purtroppo” il finale sembra faccia presagire un sequel. Quando su Doomsday sono calati i titoli di coda ho sentito il repentino bisogno di disintossicarmi con 28 settimane dopo…m’è bastata anche una piccola scena.Voto 4.5.

sabato 26 settembre 2009

Zombi (Versione estesa di 137’, George A. Romero, 1978)

Ho recuperato in questi giorni la “celebre” versione estesa di Dawn of the Dead (da noi Zombi), di Romero, di cui avevo sentito parlare sfogliando il Mereghetti ma che non avevo mai avuto modo di reperire. In effetti di questo film esistono 3 edizioni: quella americana di 122’, quella estesa di 137’ e quella per il mercato europeo di 118’. Quest’ultima, che passa saltuariamente sulle nostre reti con tagli abominevoli (vedi Rete4), è stata affidata a Dario Argento, co-produttore per l’occasione e grande amico del regista, che ha usufruito del supporto dei Goblin per una colonna sonora, a parer mio, maestosamente angosciante. Nella versione estesa con grande delusione ho invece constatato che musica e sound sono del tutto fuori luogo lambendo a tratti il ridicolo e le scene epurate dall’edizione europea aggiungono ben poco al plot(a parte quella iniziale in cui i protagonisti si imbattono in un gruppo di soldati in fuga su una barca). Tutto sommato ripescare la versione di 137’ è un’operazione che spetta ai veri fan ma in fondo ne si può fare anche a meno. Parlare della trama è superfluo perché l’ultimo remake, L’alba dei morti viventi (Zack Snyder, 2004), ci ha rinfrescato licenziosamente le idee, ma non voglio perdere l’occasione di segnalare la presenza di Tom Savini (suoi gli effetti speciali) come attore nel ruolo del capo degli “sciacalli” motorizzati, e non smetterò mai di ribadire che Zombi è forse il miglior horror di tutti i tempi per l’esplicito attacco alla società dei consumi, sottolineato dal ritorno dei morti viventi “nei luoghi calpestati da vivi”, in questo caso un appariscente centro commerciale!!! Voto versione originale – 6. Voto versione mercato europeo – 10.

giovedì 24 settembre 2009

Vivere e morire a Los Angeles (William Friedkin, 1985)

Dal regista di L’esorcista, Vivere e morire a Los Angeles è un noir incredibilmente violento che si avvale della Città degli Angeli come sfondo lurido e desolato ad una storia di per sé altrettanto “degradata”. L’agente federale Chance (William L. Petersen) è sulle tracce del falsario Masters (Willem Dafoe) per vendicare la morte del suo anziano collega. Pur di mettere le mani sull’uomo oltrepassa la sottile linea che divide giustizia e criminalità arrivando a rubare dollari veri per acquistare una partita di soldi falsi. Il finale è un vero pugno nello stomaco che ribalta gli ossidati meccanismi del cinema contemporaneo, per il quale il protagonista raggiunge meritatamente la salvezza o muore in modo plateale e retorico. Gli inseguimenti, specie quelli “a piedi”, sono ben fatti e sorvolando l’interpretazione magistrale di Willem Dafoe sono rimasto particolarmente colpito dalla prova e dalla “fisicità” di William L. Petersen (che avevo già ammirato in Manhunter), antieroe tout court privo di qualsivoglia caratura etica e mosso soltanto da un sentimento: la vendetta. Voto 7.5.

mercoledì 23 settembre 2009

The Orphanage (Juan Antonio Bayona, 2007)

Da grande fan dell’horror quale sono mi sento in dovere di esprimere tutto il mio entusiasmo per l’opera prima di Juan Antonio Bayona, vincitore in patria (Spagna) di ben 7 premi Goya. Sotto la supervisione di Gulliermo del Toro, produttore per l’occasione, Bayona prende in prestito molti dei luoghi comuni dell’horror cosiddetto abitativo – un orfanotrofio infestato da fantasmi, la mamma a cui nessuno crede e un bambino con amici immaginari al seguito – e crea una favola gotica, che rimanda indubbiamente ai canovacci di stampo orientale con pargoletti ululanti in cerca d’affetto e protezione. La trama è sostanzialmente banale ma Bayona gira con enorme sapienza senza mai cadere in pause didascaliche e alzando il ritmo nelle fasi finali. The Orphanage ha più di qualche affinità con The Others, soprattutto per l’ambientazione casalinga, ma ha nella figura materna un inequivocabile punto di tangenza con Dark Water. Tirando le somme non nascondo il pizzico di pelle d’oca provato nell’attimo “congiungente” finale (un altro punto in comune con Dark Water) con tanto di occhi lucidi, e costatando che versare una lacrima (non d’angoscia) al cospetto dell’iconografia horror è pressoché impossibile, al termine della visione di The Orphanage mi rendo conto di aver davvero per 100 minuti circa spento il mondo intorno a me per sentire sulla pelle il freddo respiro dei fantasmi. Voto 8.