domenica 25 aprile 2010

Fragile – A ghost story (Jaume Balaguero, 2005)



Cast: Clarista Flockart, Elena Anaya, Colin McFarlaine
Genere: Horror
Durata: 95’
Produzione: Spagna

All’istituto pediatrico di Mercy Falls c’è una preoccupante carenza di personale; la giovane Amy è chiamata a sostituire la precedente infermiera, Susan, che ha prima abbandonato il lavoro ed è poi morta in un sospetto incidente stradale. Tra le grazie di Amy entra subito a far parte la piccola Maggie, dall’animo ribelle e in perenne contatto con l’immaginaria Charlotte, una “bambina meccanica” che deambulerebbe tra i corridoi del secondo piano, deserto da ormai 40 anni, visibile solo ai più “fortunati”.
Le ghost story sfoggiano una batteria di personaggi buona per ogni stagione: la donna (la Mamma Abbandonata) dall’indole gracile ma pronta al sacrificio, la bambina a cui nessuno crede (il Figlio Misterioso), l’amica immaginaria in cerca d’affetto (il Bambino Nipponico) e il primario affascinante, inguaribile gnorri. Il compitino non basta quando la sceneggiatura, edificata a tavolino, gestisce in malo modo i burattini di cui sopra e si affida a un simil colpo di scena che non impressionerebbe neanche la persona più emotiva di questo mondo. Da contorno ci sono trambusti, cigolii e fragori sinistri esacerbati dal sonoro tipico del genere, puntellato da violente sferzate di violino a sottolineare i momenti clou della storia. Un film quindi più fragile delle ossa del piccolo Simon, presunto protagonista della faccenda ma accantonato in seconda battuta per motivi tuttora ignoti; manca il “cuore”, entrato in gioco nel finale e tirato via da un vile compromesso che una signora attempata giustifica così: “Ci sono domande a cui non sappiamo dare delle risposte”. Altresì traducibile: “Lo sceneggiatore è un gran coglione!!”. Voto – 5.

martedì 20 aprile 2010

Welcome (Philippe Lioret, 2009)

Cast: Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana
Genere: Drammatico
Durata: 104’
Produzione: Francia

Bilal è un 17enne iracheno giunto clandestinamente nel nord della Francia, dopo aver attraversato l’Europa, con l’obiettivo di poter raggiungere la propria ragazza a Londra e una volta arrivato in Inghilterra divenire un calciatore del Manchester United. Come? Dopo il primo tentativo fallito di varcare la frontiera a bordo di un camion al giovane curdo non resta che realizzare un’azione di caratura epica: attraversare la Manica a nuoto. L’unica persona in grado di aiutarlo è Simon, compassato istruttore di nuoto in crisi con la moglie dalla quale sta divorziando. Welcome è stato accolto al Festival di Berlino 2009 nella sezione Panorama con ben 15 minuti di applausi; meritatissimi perché è un film perfetto, transalpino in ogni inquadratura. Il tema dell’immigrazione è caro al cinema francese e in questo caso trova la sua summa espositiva negli occhi carichi di speranza del protagonista, troppo giovane per capire la reale entità dell’impresa ma così caparbio da spingerci a pensare che il muro delimitante l’impossibile non è così alto come sembra. Occhi lucidi garantiti e un’ultima immagine che per gli amanti del “pallone” ha un sapore particolare. Voto – 8.5

mercoledì 14 aprile 2010

Hostel (Eli Roth, 2005)



Cast: Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson
Genere: Horror
Produzione: USA
Durata: 90’

Il nuovo millennio del cinema horror ha avuto inizio con il grande boom (e relativo saccheggio a stelle e strisce) del “mercato” orientale: The Ring, Dark Water, Ju-On, Two Sister e via dicendo. La paura a culmine di un’attesa sorretta da pargoletti ululanti, specchi meschini e sofferenze recondite. Sangue e torture assenti perché non conformi al dogma portante delle Ghost Story. Successo “umile ma onesto” ai botteghini, soprattutto grazie all’exploit di The Ring (remake di Ringu). Le Storie di Fantasmi Cinesi sembrano funzionare perché mirate a scardinare il lato introspettivo del genere; a spaventarci non sono mostri, alieni o serial killer ma gli scheletri nell’armadio. Eppure siamo nel 2002; il 90% della popolazione terrestre è col nasino sulla mappa nel tentativo di capire dove cavolo sia finito quel marpione di Bin Laden. Il nostro vicino crede di aver visto il Mullah Omar nella salumeria sotto casa. Tutti, improvvisatici filoamericani for a day, sentiamo una rabbia ribollire nelle vene al ricordo di quelle torri così imponenti, così maestose, inno all’egocentrismo made in Usa, buttate giù con tanta grazia da 2 boeing guidati da una combriccola di “martiri” neopatentati. Dobbiamo pur sfogarci, dar qualcosa in pasto a quella sensazione di vendetta, ahimè inappagata. Il pubblico post 11 settembre, during guerra in Iraq e inside Guantanamo ha esplicito bisogno di violenza gratuita, e l’horror giunge in soccorso come uno Steven Seagal d’antan. Saw fa da apripista; l’Enigmistica del titolo ci ricorda che abbiamo tanto peccato e un po’ di sana sofferenza fisica ci condurrà all’espiazione delle nostre colpe. E vai con le atrocità inflitte per mezzo di seghetti e altri oggetti dai denti irti e spigolosi. Nessuno lo sa ma è nato il Torture porn. Cos’è il Torture porn? A spiegarcelo giunge Hostel, nato dalla mente contorta di Eli Roth, fedele scudiero di un altro essere dalla mente contorta, Quentin Tarantino. Il meccanismo narrativo è una fusione tra lo schema classico dell’horror bucolico partorito da Non aprite quella porta e il nuovo concetto di horror moderno. C’è quindi una prima parte scritta su misura per delineare l’idiozia dei giovani protagonisti; 2 americani e un islandese in gita “di piacere” pronti a trombarsi l’Europa in lungo e in largo. Francia, Svizzera, Belgio e prossima fermata: Barcellona. Ma esiste un posticino migliore dove le ragazze ti si concedono anche se non hai le Extraordinary Measures di Rocco Siffredi. Quel posto si chiama Slovacchia. Entrate nell’ostello e “dite che vi ci ho mandato io”; parole di un fidato tossico dell’est, parole sante. Il tempo di posare le valigie nella stanze e due ragazze (una bionda e una mora, come le veline) senza mezzi termini ti fanno capire che quella sera un’orgia a 4 sarà il minimo sindacale, le fondamenta dalle quali partire per una vacanza a base di sesso e alcool. Voi, malati spettatori, seduti in poltrona state già contattando la vostra agenzia di viaggio. Ma ecco cominciare la seconda parte di cui sopra. Ecco irrompere il dramma. Ecco la svolta a ricordarci che Hostel è prima di tutto un horror, non un porno softcore. I ragazzi scompaiono uno ad uno senza destare sospetti, intontiti dalle fanciulle e finiti tra le grinfie di ricchi pazzoidi disposti a sborsare cifre esorbitanti pur di martoriare qualche innocente. Spendi un tot e scegli il/la malcapitato/a. Come lo vuoi? Americano? Con gli occhi a mandorla? Zoppo? Stupido? Esaurito? Abbiamo di tutto. La scena del crimine è una stanza fetida (il Luogo Comune del terzo millennio), il cui buio è spezzato da una luce fioca. Arredamento spartano: un mobiletto su cui sfilano gli attrezzi del mestiere (trapani, bisturi, pinze, seghe, fiamme ossidriche…) e una sedia ferruginosa per la “merce” da brutalizzare. Si aprano le danze. Scorrano fiotti di sangue. Amputazioni e ustioni facciali regnino incontrastate.
Qual è il messaggio di Hostel? Non credete a quello spot secondo il quale ci sono cose che non hanno prezzo. Il consumismo ci insegna che il Verdone è come un gigantesco motore che girare il mondo fa. E noi dinanzi al suo potere chiniamo il capo, vittime e carnefici della dimensione contemporanea da noi stessi creata. Nulla più stuzzica l’animo, nulla sa emozionarci. Allora perché non togliere la valvola alle nostre perversioni? Basta avere quello, il Verdone. E se non lo tieni ti attacchi, aspetti i saldi. Ma devi accontentarti della merce accantonata. Roba scadente e taglie grandi. Voto – 7.

domenica 11 aprile 2010

Machan (Uberto Pasolini, 2008)



Cast: Dharmapriya Dias, Gihan De Chickera, Dharshan Dharmaraj
Genere: Commedia
Durata: 110’
Prod. : Italia/Germania/Sri Lanka

Tra i miseri anfratti di Colombo una combriccola di amici senz’arte né parte (un bel gigolò, un inguaiato scavezzacollo, un truffatore sibillino…) spera di ricevere il visto per abbandonare lo Sri Lanka e raggiungere il sogno europeo. Ma tra cavilli burocratici, inequivocabili dinieghi e soldi andati in fumo tutto svanisce. Qual è allora l’unica via di fuga per i nostri eroi popolani? Iscriversi a un torneo di pallamano che si terrà in Germania, presentandosi sotto le mentite “maglie” della Squadra Nazionale di Pallamano dello Sri Lanka (S.L.H.N.F.). Come nelle migliori favole il colpaccio riesce, eppure l’iniziale idea di giungere in Baviera al mero fine di dileguarsi nelle nazioni limitrofe cede il passo all’orgoglio campanilista, e il team cingalese, pienamente ignaro delle nozioni basilari dell’Handball, decide ugualmente di scendere in campo per onorare la causa. Uberto Pasolini torna sugli stessi temi di Full Monty – del quale era stato produttore – chiudendo il classico gruppo di scapestrati in un vicolo cieco e affidandosi alla loro inventiva. Ne nasce un ibrido tra Fuga per la vittoria e Train de vie (per la simpatica assegnazione dei ruoli) dove il mastice granitico è lo sport, dotato di una forza unificatrice capace di abbattere anche i più beceri interessi restituendo ai protagonisti una dignità nazionale per tanti purtroppo perduta. E così quella palla che lentamente si insacca, a suggellare l’unica rete (dopo due k.o. siderali) della “nostra” sregolata squadra si tinge di connotati epici; un abbraccio corale lungo una speranza, una buonanotte sussurrata nei corridoi che sa di addio, poi annullare il passato, salire su un camioncino, viaggiare verso il Paese dei Balocchi e ricominciare da zero. Sarà vera gloria? Voto – 8.

giovedì 8 aprile 2010

King Kong (Peter Jackson, 2005)



Cast: Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody
Genere: Avv/Fant.
Durata: 189’

Rivedere un film di 3 ore per la quarta volta non è sinonimo di pura follia; alla base di codesto insano gesto risiede un perché. King Kong è il primo grande eroe tragico del firmamento cinematografico. Lo sa bene il neozelandese Peter Jackson che con ben 207 milioni di dollari di budget (22 messi di tasca propria) ha realizzato il suo personale sogno nel cassetto: restituire con tecniche digitali moderne nuova linfa al gorilla nato (almeno sullo schermo) nel 1933 dal sodalizio Cooper – Schoedsack. L’opera è infatti più fedele all’originale che al rifacimento inefficace del 1976 di Guillermin e lo si nota da alcuni sottili riferimenti e dalla data nel quale l’epopea è ambientata: appunto il 1933. A New York impazza la crisi economica e il cinico regista Carl Denham ingaggia l’attrice malmessa Anne per girare un documentario su un’isola deserta. A fargli compagnia una troupe sprovvista, tanti marinai avventurieri e lo sceneggiatore Jack Driscoli. L’isola purtroppo non è affatto disabitata; presenti all’appello alcune tribù dalle tradizioni discutibili, dinosauri e insetti d’ogni specie e un gorillone alto 8 metri a cui i nativi donano in sacrificio giovani fanciulle. La malcapitata sarà proprio l’attrice Anne della quale lo scimmione si innamorerà follemente. Il resto è noto, con gran finale sull’Empire State Building. Peter Jackson porta con sé in ogni film il suo atavico difetto di lavorazione; la voglia di strafare. La parte centrale è infinitamente pleonastica dettata da inseguimenti incredibili (cioè non-credibili) e lotte ferine degne di Godzilliana memoria. E l’ingombrante eco di Jurassic Park più che far capolino nel racconto ne prende le redini a tutti gli effetti. Eppure King Kong è un film riuscito. La sua potenza sta nei teneri momenti di intimità tra la donna e il gorilla. L’iniziale e ovvia incompatibilità che col tempo assume i connotati di un linguaggio universale: quello dell’amore, non un amore qualsiasi, l’amore impossibile, irrealizzabile, che scorre nelle viscere, l’amore tra la Bella e la Bestia. Ancora una volta l’istinto, composto da gesti “selvaggi”, contro la ragione, rappresentata dal becero consumismo occidentale a rimembrarci la reale indole dell’essere umano; cosa noi siamo, o meglio eravamo, nel nostro inconscio e cosa siamo diventati nel moderno e ambiguo concetto di civilizzazione. Zittire l’istinto, l’impulsività, palesa la morte dell’anima. Meglio morire dopo aver lottato, dopo esser saliti lassù con la propria amata, sulla punta di un palazzo, a guardare il tramonto per incrociare un’ultima volta lo sguardo con la Natura, pronti ad urlare e a batterci il petto proprio lì dove il cuore ci ricorda che siamo vivi, mai domi, mai schiavi. Voto – 8.

Quand’ecco la bestia guardò in volto la bella, la bella fermò la bestia. E da quel giorno in poi fu come morta.