sabato 31 luglio 2010

La Horde (Yannick Dahan - Benjamin Rocher, 2009)



Cast: Claude Perron, Jean-Pierre Martins, Eric Ebounaey
Genere: Horror
Durata: 90’
Paese: Francia

Parigi: 5 poliziotti, accecati dalla rabbia per l’assassinio di un collega, irrompono in un condominio fatiscente, decisi a stanare una banda criminale multietnica e al fine di liberare un infiltrato tenuto in ostaggio da quest’ultima. Dopo una becera carneficina nella quale a uscirne vincitori sono senza dubbio i malviventi, capitanati dal cliché dei cliché – ovvero l’Eroe Afro-Americano (nigeriano per la precisione), i protagonisti scoprono sulla loro pelle che qualcosa non va; i morti tornano fulmineamente in vita e contro ogni dogma romeriano non si muovono a rallenti bensì sono scatenati come i Demoni di Lamberto Bava. Parigi, sullo sfondo, è messa a ferro fuoco da questa strana epidemia mentre l’inespugnabilità del condominio, minacciata da migliaia di zombi deambulanti nei paragi, vive dell’improbabile alleanza tra buoni e cattivi (e voi mi chiederete “Quali sono i buoni?”). Da segnalare verso il quarantesimo minuto l’apparizione di un fanatico sessantenne, reduce dalla guerra in Indocina del ’64, che si ostina a etichettare quali “cinesi” i morti viventi in questione; destinato da copione a morire subito per la sua spiccata immoralità, si erge incredibilmente ad eroe con tanto di mitragliette e bombe a mano, reggendo fino al novantesimo e capitolando in zona Cesarini. Per il sottoscritto parlare di zombi è come per un calciofilo poter raccontare le gesta della squadra del cuore. La Horde è prima di tutto un bel film. Difficile spiegare se alcuni momenti sono sinceri omaggi a 28 giorni dopo o semplici scopiazzature (vedere la scena iniziale delle ombre veloci sull’asfalto) e altrettanto difficile mandar giù delle scene assurde (il massacro perpetrato dal tettuccio dell’auto) che farebbero invidia anche a L’alba dei morti viventi di Zack Snyder. Eppure il profilo morale della sottotrama, giocata sulla fusione ideologica tra criminali e piedipiatti, è ammaliante e sembra ridursi a due inviolabili assunti; 1) quando si tratta di sopravvivenza non esistono amici 2) di conseguenza siamo tutti delle merde. Voto – 7.5.

martedì 27 luglio 2010

Ring 2 (Hideo Nakata, 2005)



Cast: Naomi Watts, David Dorfman, Simon Baker, Sissy Spacek
Genere: Horror
Durata: 110’
Titolo originale: The Ring two

La saga di The Ring tra gli originali giapponesi e i remake a stelle e strisce è particolarmente ingarbugliata. L’Hideo Nakata in questione è colui che ha dato vita ai primi due capitoli giapponesi, Ringu e Ringu 2, entrambi tratti dai libri di Koji Suzuki. Poi è stato convocato dai produttori hollywoodiani i quali gli hanno gentilmente chiesto di rifare il suo stesso film (un po’ come il Funny Games di Haneke, guarda caso anch’esso con Naomi Watts) continuando lì dove il collega Gore Verbinski aveva concluso. Ora stare qui a spiegare perché un film popolato da anonimi volti orientali venga rifatto a distanza di pochi anni con l’unica differenza che gli occhi a mandorla cedono il passo a grossi, fieri, libidinosi sguardi alla Zio Sam risulta superfluo e quanto mai banale. Ringu 2 è il richiamo alle armi di Samara; la mammina Rachel credeva d’averla fatta franca dopo essere stata involontaria artefice del trapasso del suo ex a cui aveva fatto vedere una copia della maledetta vhs. Ma non è bastato scappare col figlioletto Aidan, trasferirsi a Seattle e scalciare il marcio sotto il tappeto. Samara e i suoi capelli neri effetto mocio corrono tra i banchi di un mercatino di videocassette. La ragazzina dal passato nefasto è tornata e questa volta, pur d’accasarsi e trovare una mamma disposta a non ammazzarla, sembra voglia impossessarsi del piccolo e mefistofelico Aidan. A noi spettatori dopo 10 minuti verrebbe da suggerire: “E prenditelo pure sta specie di bambino con la faccia da scimpanzé!” ma purtroppo la dolce Rachel (Naomi Watts quand’era in carne e gnocca) non è affatto d’accordo anche se per un attimo tenta di affogarlo nella vasca, non si sa se per sbaglio o per esaudire il nostro grido d’aiuto. La trama denota la stessa scansione temporale del primo capitolo con morte dell’aspirante consorte (il Simon Baker di The Mentalist) verso il settantesimo minuto, apparizione di animali impazziti e scena madre nel pozzo del martirio. Ora la differenza sostanziale col capitolo precedente sta tutta nel ruolo rivestito da Samara; interessante, misteriosa, supplichevole nel primo, odiosa, insopportabile e purtroppo onnipresente nel secondo. Il rapporto madre-figlio è sin troppo unilaterale per ispirare tenerezza e il gesto estremo nel nome dell’amore materno ha ben altra caratura emotiva in quel capolavoro che è Dark Water. Acqua, appunto. Elemento portante qui come in tutto l’horror orientale; è ovunque e in ingenti quantità. Chiedetelo al bambino, o a quel vecchietto rinchiuso nel corpo di un marmocchio di 8 anni, che in più di un’occasione si ritrova ammarato nella vasca!! Voto – 5.5.

sabato 3 luglio 2010

Venerdì 13 (Marcus Nispel, 2009)



Cast: Jared Padalecki, Aaron Yoo, Amanda Righetti, Danielle Panabaker
Genere: Horror
Durata: 97’
Produzione: Usa
Titolo originale: Friday the 13th

Madre de dios. Il concetto d’obbrobriosità assume prospettive aberranti quando si parla di horror, eppure era difficile, forse impossibile, far peggio dell’originale sfornato 30 anni fa da Sean S.Cunningham. Il nuovo capitolo, per la precisione il dodicesimo, non è un remake nonostante il titolo ci suggerisca il contrario, non è un reboot sebbene debutti la maschera da hockey, non è un prequel perché ce ne sbattiamo dell’infanzia di Jason, quindi cos’è? Parlare di sequel risulterebbe fallace; la continuità temporale è un assunto sconosciuto ai tanti artefici della saga. Ogni tassello, al contrario della sestina di Saw, ha vita a sé stante. Questo non fa alcuna eccezione: tra le putride acque di Crystal Lake aleggia il demone maledetto di Jason Voorhees, 4x4 con ampio bagagliaio(malgrado sia morto da bambino), pronto ad accanirsi su una ridda di giovani inebetiti in vacanza. Trama da abbecedario dello slasher. Per il resto un’accozzaglia di squallidi luoghi comuni; 200 gr di fumo, tette siliconate a iosa, sesso q.b., una spremuta abbondante di idiozia e dialoghi ridotti all’osso. Mescolate il tutto con una serie di personaggi oramai logori quali lo sceriffo che trapassa sull’uscio di casa, un meccanico bifolco dai denti giallognoli, e una coppia multietnica di segaioli, quindi spegnete il cervello, indossate un paio di comode babbucce e mettete l’impasto in forno per 90 minuti. A mancare è purtroppo l’ingrediente principale. Cos’è Venerdì 13 senza sangue? Un’amatriciana senza guanciale. La violenza, unico motivo di perverso interesse per il 90% dell’horror moderno, è qui priva di becera efferatezza; risulterebbe più atroce una pacca sulla spalla dispensata dal vostro miglior amico che uno degli svariati accoltellamenti inflitti da Jason. Noia, noia e ancora noia. Ma qualcosa che fa realmente paura c’è; la possibilità – come suggerisce l’epilogo – di un ulteriore sequel. Brrrrr. Voto – 4.