Cast: Emily Browning, Arielle Kebbel, David Strathairn
Genere: Horror
Durata: 85’
Ennesimo remake stars and stripes di una pellicola orientale. Dal 2002 a oggi è successo spesso: vedi The Ring, Dark Water, The Grudge e consociati. In questo caso l’originale, Changhwa Hongryon del 2003, è sconosciuto ai più. Eppure il tema, in linea con i canoni dell’horror dagli occhi mandorla, ha quel fascinoso quid che lo discosta dai bidoni rifilatici negli ultimi anni da chi ha razziato il mercato nipponico senza scrupoli. La trama è infatti alquanto sfrondata: Anna, appena dimessa da un istituto psichiatrico, torna a casa per far luce sulla misteriosa morte della madre avvenuta un anno addietro. I sospetti cadranno sulla nuova compagna del padre.
The Uninvited non è di certo un capolavoro, ma avrà il merito di stupire soprattutto chi è alle prime armi con il genere, giocando con le atmosfere care all’horror abitativo (una casa con laghetto annesso, fantasmi accampati sotto letti e lunghi silenzi), ma ha vita breve con chi invece conosce bene tali meccanismi. L’eccessiva linearità del plot (che si perpetra per 70 minuti) tradisce le ingannevoli intenzioni della sceneggiatura, ottenendo comunque nel finale un colpo di scena notevole ma attesissimo da chi ha scoperto presto gli altarini. Voto – 6.5 (per neofiti) – 5 (per veterani).
domenica 31 gennaio 2010
domenica 24 gennaio 2010
Up (Pete Docter, 2009)
Genere: Animazione
Durata: 95’
Distribuzione: Walt Disney
Si vola alto con Up. L’ultimo gioiello del tandem Pixar/Disney è griffato Pete Docter (Monsters & Co.), come dire una garanzia. Un viaggio a quote siderali a bordo della casetta di Carl Fredicksen, vecchietto burbanzoso che coglie l’occasione di una sfratto coatto per sloggiare dal suo quartiere e per farla sotto al naso a quell’omino diafano in nero che lì ci vuol piazzare un nuovo ecomostro. Ed ecco librarsi in volo una bicocca in legno agganciata a migliaia di palloncini colorati. Con lui un pluridecorato boyscout, improvvisatosi per evenienza assistente d’anziani (manca una sola medaglietta per completare la “collezione”), e un sogno nel cassetto: raggiungere le Cascate Paradiso in Sudamerica, sogno mai esaudito con sua moglie a causa di svariati “incidenti” economici. L’avventura ha inizio in un tourbillon di temporali mefistofelici, atmosfere esotiche e scenari da gran Canyon. Un tour immaginifico tra Guyana, Brasile e Venezuela dove i ricordi sbiaditi di un uomo solo cedono il passo a esperienze incantevoli, da affrontare con il groppo in gola e gli occhi sgranati perché restare ancorati al passato a volte è una bieca condanna. Ma non sei solo quando a farti compagnia ci sono appunto lo scout Russell, vivace curiosone ma sotto sotto amante dei momenti “noiosi” della vita (come contare su un muretto le macchine rosse in transito), un cane parlante, capace di articolare lunghi discorsi interrotti istantaneamente alla vista di uno scoiattolo, e Kevin, “l’uccello in Technicolor”, esemplare quanto mai raro sulle cui tracce c’è Charles Muntz, spietato avventuriero a caccia di trofei, circondato da una flotta di imbranati cani parlanti (e qui sottolineo la scena esilarante della cena). Si sono sprecati parallelismi tra Up e Gran Torino per la “strana coppia” formata da un misantropo anziano (Fredicksen-Kowalski) e un ragazzino dagli occhi a mandorla (Russell-Hmong) perché il capolavoro Pixar prende effettivamente in prestito i temi cari al cinema di Eastwood: ritrovare in un/una giovane scapestrato/a (Gran Torino e Million Dollar Baby) un “figlio” da accudire. In sostanza un film per adulti. I bambini vanno “accompagnati” al cinema soltanto per evitare d’esser guardati in modo sospetto dagli altri genitori. Voto – 8.
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Giovanni Masturzo,
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Up
mercoledì 20 gennaio 2010
Il messaggero (Peter Cornwell, 2009)
Cast: Virginia Madsen, Elias Koteas, Kyle Gallner
Genere: Horror
Durata: 98’
Titolo originale: The Haunting in Connecticut. Dove Haunting sta letteralmente per “ossessionante” (ma fa riferimento più che altro a “infestato dagli spettri” - Haunted), the sta per “The”, in sta per “in” e “Connecticut” sta per “tratto da una storia vera”. Ricordate… se nel titolo appare il nome di uno stato americano allora ci si rifà a fatti (ir)realmente accaduti (Es: Non aprite quella porta ovvero The Texas Chain Saw Massacre). E dopo 4 secondi, a zittire ogni dubbio, ecco stagliarsi sullo schermo l’effigie “Based on true story”. Più che un’effigie un epitaffio. Perché starsene lì a capire cosa sia vero e cosa ad capocchiam è un gioco al massacro (e non bastano le didascalie finali). Il più delle volte si tratta di colorite leggende metropolitane, eppure se vi presentate sul luogo i nativi vi manderanno da un rubizzo vecchietto pronto a giurarvi che sia tutto realmente accaduto. Provate ad andare in Connecticut, chiedete della famiglia Sdeneker e vedrete. No, non sto delirando. Sto soltanto prendendo tempo perché su questo film c’è ben poco da dire. Il messaggero è l’ennesimo fallito tentativo di Horror Abitativo. Luoghi comuni come d’autunno al suolo le foglie: casa infestata nelle fresche frasche, mamma facilmente esauribile, padre ubriacone, prete ghostbuster, bambini idioti, fugaci apparizioni negli specchi, blackout estemporanei, foto in b/n di morti seduti o sdraiati (visti in The Others), scena nella doccia, scena in soffitta e scena nella stanza delle torture. La novità (relativamente) è il protagonista, affetto da cancro e pronto a sacrificarsi per espiare le colpe altrui (questo invece è un cliché proprio dell’horror orientale). Alcuni attori sono bravissimi (Kyle Gallner su tutti) ma la storia, potenzialmente struggente e con tanta carne a cuocere, è sfilacciata e senza cuore. The Orphanage è lontano 1000000000000000000 anni luce. Voto – 5.
Vi riporto una simpatica barzelletta raccontata a inizio film.
Dottore: “Lei, mi dispiace dirlo, ha un tumore e soffre anche di Alzheimer”
Paziente: “Uhhhhhh… meno male… almeno non ho un tumore”
Genere: Horror
Durata: 98’
Titolo originale: The Haunting in Connecticut. Dove Haunting sta letteralmente per “ossessionante” (ma fa riferimento più che altro a “infestato dagli spettri” - Haunted), the sta per “The”, in sta per “in” e “Connecticut” sta per “tratto da una storia vera”. Ricordate… se nel titolo appare il nome di uno stato americano allora ci si rifà a fatti (ir)realmente accaduti (Es: Non aprite quella porta ovvero The Texas Chain Saw Massacre). E dopo 4 secondi, a zittire ogni dubbio, ecco stagliarsi sullo schermo l’effigie “Based on true story”. Più che un’effigie un epitaffio. Perché starsene lì a capire cosa sia vero e cosa ad capocchiam è un gioco al massacro (e non bastano le didascalie finali). Il più delle volte si tratta di colorite leggende metropolitane, eppure se vi presentate sul luogo i nativi vi manderanno da un rubizzo vecchietto pronto a giurarvi che sia tutto realmente accaduto. Provate ad andare in Connecticut, chiedete della famiglia Sdeneker e vedrete. No, non sto delirando. Sto soltanto prendendo tempo perché su questo film c’è ben poco da dire. Il messaggero è l’ennesimo fallito tentativo di Horror Abitativo. Luoghi comuni come d’autunno al suolo le foglie: casa infestata nelle fresche frasche, mamma facilmente esauribile, padre ubriacone, prete ghostbuster, bambini idioti, fugaci apparizioni negli specchi, blackout estemporanei, foto in b/n di morti seduti o sdraiati (visti in The Others), scena nella doccia, scena in soffitta e scena nella stanza delle torture. La novità (relativamente) è il protagonista, affetto da cancro e pronto a sacrificarsi per espiare le colpe altrui (questo invece è un cliché proprio dell’horror orientale). Alcuni attori sono bravissimi (Kyle Gallner su tutti) ma la storia, potenzialmente struggente e con tanta carne a cuocere, è sfilacciata e senza cuore. The Orphanage è lontano 1000000000000000000 anni luce. Voto – 5.
Vi riporto una simpatica barzelletta raccontata a inizio film.
Dottore: “Lei, mi dispiace dirlo, ha un tumore e soffre anche di Alzheimer”
Paziente: “Uhhhhhh… meno male… almeno non ho un tumore”
giovedì 14 gennaio 2010
[REC]2 (Jaume Balaguerò, Paco Plaza – 2009)
Cast: Manuela Velasco
Genere: Horror
Durata: 85’
Si torna a Barcellona, numero civico 34 della Rambla di Catalunya (location top secret nel capitolo precedente), stesso condominio stessa pandemia e si ricomincia - camera a spalla - lì da dove avevamo finito. Sono tutti morti? A scoprirlo a loro spese saranno 4 agenti speciali coadiuvati da un esorcista americano, in missione nel nome del Vaticano, che ne sa letteralmente una più del Diavolo. Il film comincia come il primo livello di SWAT, con una squadra anticrimine totalmente impreparata (e il povero Martos mandato allo sbaraglio), e poi, svelati gli interessi del prete, vira bruscamente verso l’horror a sfondo demoniaco. Ma a metà plot il meccanismo narrativo fa come back sbattendoci nuovamente all’inizio della storia e ci presenta 3 ragazzini, intrufolatisi di stramacchia nell’edificio, ignari della sciagura in atto e muniti anch’essi di telecamera digitale. Grazie ad un inaspettato rewind qualche passaggio precedentemente irrisolto assume fattezze ora consone e il timore di una monotonia tematica (la ricerca ossessiva del siero) è abilmente respinto. Il ritmo cala però nel finale quando i due gruppi si compattano e la claustrofobica realtà condominiale cede il passo ad una dimensione soprannaturale, ricca di trabocchetti visivi e, ahimè, cliché narrativi. L’opera dell’accoppiata Balaguerò-Plaza centra sostanzialmente il bersaglio ricordandoci come il concetto di horror - mockumentary (documentario fittizio) non si limiti al semplice ed esasperante abuso di riprese da mare forza nove (vedi Cloverfield).
Inoltre c’è un interessante parallelismo da proporre, con quesito annesso, per chi abbia visto sia il dittico di REC che Diary of the Dead (quinto e penultimo capitolo della saga di Romero). Nel “capolavoro” di Romero, girato con la medesima tecnica del mockumentary, al termine capivamo chi aveva montato l’intero film e la successione delle sequenze aveva un senso. Ma in REC tutto ciò resta un mistero. Rec significa registrato. E’ tutto quindi già accaduto. A quest’ora l’epidemia avrà forse distrutto l’intera Spagna. Quindi… chi ha montato le scene? Chi ha alternato in fase di registrazione le varie riprese? Lo scopriremo probabilmente nell’ultimo “obbligatorio” sequel (resta da capire quanti ne siano). Voto – 7.
Note - presenti al cinema una trentina di unità tra cui:
Tonino Esposito (Spettatore Saccente di Cecchipaoniana memoria) – odioso già all’altezza di Meta di Sorrento. Sua la massima “Il Diavolo è donna!” (Guida ai luoghi comuni del Tonino Pensiero)
Antonella (Spettatrice Esordiente) – al debutto regge magistralmente per 90 minuti nonostante qualche imbonitore le abbia assicurato l’assenza di sostanze ematiche sul grande schermo.
Ciccio (Spettatore – promotore) – propone, organizza, si barcamena su internet tra orari e programmazioni e tira fuori dal cilindro un filmetto niente male. Chapeau.
Giovanni (Spettatore Intenditore o Presunto Tale) – dovrebbe essere il cinefilo della comitiva ma a fine visione non ci ha capito evidentemente una mazza. A chi gli chiede lumi sulla trama risponde con sguardo perso.
Aldo (Spettatore Neofitahorror) - s'accorge da subito che sedersi nel posto sbagliato equivale a una condanna eterna. E dopo appena un minuto la Giustizia Divina fa il suo ingresso: "Scusa ma questi sono i nostri posti"
Genere: Horror
Durata: 85’
Si torna a Barcellona, numero civico 34 della Rambla di Catalunya (location top secret nel capitolo precedente), stesso condominio stessa pandemia e si ricomincia - camera a spalla - lì da dove avevamo finito. Sono tutti morti? A scoprirlo a loro spese saranno 4 agenti speciali coadiuvati da un esorcista americano, in missione nel nome del Vaticano, che ne sa letteralmente una più del Diavolo. Il film comincia come il primo livello di SWAT, con una squadra anticrimine totalmente impreparata (e il povero Martos mandato allo sbaraglio), e poi, svelati gli interessi del prete, vira bruscamente verso l’horror a sfondo demoniaco. Ma a metà plot il meccanismo narrativo fa come back sbattendoci nuovamente all’inizio della storia e ci presenta 3 ragazzini, intrufolatisi di stramacchia nell’edificio, ignari della sciagura in atto e muniti anch’essi di telecamera digitale. Grazie ad un inaspettato rewind qualche passaggio precedentemente irrisolto assume fattezze ora consone e il timore di una monotonia tematica (la ricerca ossessiva del siero) è abilmente respinto. Il ritmo cala però nel finale quando i due gruppi si compattano e la claustrofobica realtà condominiale cede il passo ad una dimensione soprannaturale, ricca di trabocchetti visivi e, ahimè, cliché narrativi. L’opera dell’accoppiata Balaguerò-Plaza centra sostanzialmente il bersaglio ricordandoci come il concetto di horror - mockumentary (documentario fittizio) non si limiti al semplice ed esasperante abuso di riprese da mare forza nove (vedi Cloverfield).
Inoltre c’è un interessante parallelismo da proporre, con quesito annesso, per chi abbia visto sia il dittico di REC che Diary of the Dead (quinto e penultimo capitolo della saga di Romero). Nel “capolavoro” di Romero, girato con la medesima tecnica del mockumentary, al termine capivamo chi aveva montato l’intero film e la successione delle sequenze aveva un senso. Ma in REC tutto ciò resta un mistero. Rec significa registrato. E’ tutto quindi già accaduto. A quest’ora l’epidemia avrà forse distrutto l’intera Spagna. Quindi… chi ha montato le scene? Chi ha alternato in fase di registrazione le varie riprese? Lo scopriremo probabilmente nell’ultimo “obbligatorio” sequel (resta da capire quanti ne siano). Voto – 7.
Note - presenti al cinema una trentina di unità tra cui:
Tonino Esposito (Spettatore Saccente di Cecchipaoniana memoria) – odioso già all’altezza di Meta di Sorrento. Sua la massima “Il Diavolo è donna!” (Guida ai luoghi comuni del Tonino Pensiero)
Antonella (Spettatrice Esordiente) – al debutto regge magistralmente per 90 minuti nonostante qualche imbonitore le abbia assicurato l’assenza di sostanze ematiche sul grande schermo.
Ciccio (Spettatore – promotore) – propone, organizza, si barcamena su internet tra orari e programmazioni e tira fuori dal cilindro un filmetto niente male. Chapeau.
Giovanni (Spettatore Intenditore o Presunto Tale) – dovrebbe essere il cinefilo della comitiva ma a fine visione non ci ha capito evidentemente una mazza. A chi gli chiede lumi sulla trama risponde con sguardo perso.
Aldo (Spettatore Neofitahorror) - s'accorge da subito che sedersi nel posto sbagliato equivale a una condanna eterna. E dopo appena un minuto la Giustizia Divina fa il suo ingresso: "Scusa ma questi sono i nostri posti"
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lunedì 11 gennaio 2010
Halloween II (Rob Zombie, 2009) - Unrated
Cast: Chase Wright Vanek, Malcom McDowell, Sheri Moon Zombie, Brad Dourif
Genere: Horror
Durata: 120’
Mai scherzare col fuoco. Rob Zombie si cimenta ancora con Carpenter. Dopo il sopravvalutato Halloween – The Beginning (in realtà un reboot –riavvio- e non un prequel come incita il “the beginning”) Michael Myers è tornato, anzi non se ne è proprio andato, per uccidere la sorella Laurie, scampata miracolosamente ai 220 cm di furia cieca del fratellone, enfant prodige dell’arma bianca. Dal passo solennemente zombesco e ridotto come un lanuginoso clochard, il taciturno omaccione s’aggira tra i campi affidandosi ai consigli onirici della defunta madre che gli suggerisce vivamente, tra cavalli bianchi e aure divine, di portare a termine la strage incompiuta la notte di Halloween. La trama è un puro pretesto per dar vita alla spirale di violenza tanto cara a Rob Zombie. Crani spappolati e teste tranciate non mancano all’appello. Strausato anche il termine fuckin’ che nella versione unrated impazza più di una qualsivoglia preposizione semplice. Marcano visita come “da copione” i dialoghi, del tutto superflui (rivedere La casa del Diavolo per credere) e idonei soltanto a tracciare la dimensione bifolca della maggior parte dei personaggi di contorno. Ma ciò che davvero stecca nel cinema dell’ex leader del gruppo White Zombie è la paura. La struttura narrativa è stantia: tutto accade seguendo le logiche e ataviche regole del sottogenere slasher e non basta una stanza inverosimilmente imbrattata di sangue a far tremare le gambe. La suspense non abita qui. Da annotare il bis dell’ex drugo Malcom McDowell, splendente come un lucido per scarpe, e la presenza dello sceriffo Brad Dourif, complessato pazzoide in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Il theme originale di Halloween – La notte delle streghe, composto proprio da John Carpenter, risuona soltanto sui titoli di coda. Voto – 4,5.
Genere: Horror
Durata: 120’
Mai scherzare col fuoco. Rob Zombie si cimenta ancora con Carpenter. Dopo il sopravvalutato Halloween – The Beginning (in realtà un reboot –riavvio- e non un prequel come incita il “the beginning”) Michael Myers è tornato, anzi non se ne è proprio andato, per uccidere la sorella Laurie, scampata miracolosamente ai 220 cm di furia cieca del fratellone, enfant prodige dell’arma bianca. Dal passo solennemente zombesco e ridotto come un lanuginoso clochard, il taciturno omaccione s’aggira tra i campi affidandosi ai consigli onirici della defunta madre che gli suggerisce vivamente, tra cavalli bianchi e aure divine, di portare a termine la strage incompiuta la notte di Halloween. La trama è un puro pretesto per dar vita alla spirale di violenza tanto cara a Rob Zombie. Crani spappolati e teste tranciate non mancano all’appello. Strausato anche il termine fuckin’ che nella versione unrated impazza più di una qualsivoglia preposizione semplice. Marcano visita come “da copione” i dialoghi, del tutto superflui (rivedere La casa del Diavolo per credere) e idonei soltanto a tracciare la dimensione bifolca della maggior parte dei personaggi di contorno. Ma ciò che davvero stecca nel cinema dell’ex leader del gruppo White Zombie è la paura. La struttura narrativa è stantia: tutto accade seguendo le logiche e ataviche regole del sottogenere slasher e non basta una stanza inverosimilmente imbrattata di sangue a far tremare le gambe. La suspense non abita qui. Da annotare il bis dell’ex drugo Malcom McDowell, splendente come un lucido per scarpe, e la presenza dello sceriffo Brad Dourif, complessato pazzoide in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Il theme originale di Halloween – La notte delle streghe, composto proprio da John Carpenter, risuona soltanto sui titoli di coda. Voto – 4,5.
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sabato 9 gennaio 2010
I love Radio Rock (Richard Curtis, 2009)
Cast: Philip Seymour Hoffman, Nick Frost, Rhys Ifans, Kenneth Branagh
Genere: Commedia/Musicale
Durata: 123’
Inghilterra, 1966: al largo del Mare del Nord una nave carica di sound lotta contro un’assurda legge che limita la diffusione del Rock’n’Roll a sole due ore a settimana. 8 dj e un equipaggio da tregenda sfidano 24 ore su 24 la pazienza del meschino ministro Dormandy (Kenneth Branagh) che, deciso a proclamare il suo intimidatorio Marine Broadcasting Offences Act , minaccia di dichiarare come veri e propri fuorilegge i pirati della musica. Lateralmente ispirato alla vicenda di Radio Coraline, I love Radio Rock non è un semplice e dovuto tributo alla musica “ribelle” di quei tempi ma anche un sentito omaggio a chi cercava tra le frequenze della radio, nascosta sotto il cuscino, il sapore della libertà emotiva. Si succedono come da protocollo i Rolling Stones, gli Who, i Kniks e tutti coloro che hanno condotto il Regno Unito nel Gotha del Rock’n’Roll. Il corollario musicale è supportato da un cast magicamente “stoico” (Philip Seymour Hoffman non ne sbaglia una) e da una regia (il Richard Curtis di Love Actually – L’amore davvero) votata ai meccanismi volutamente sobri della commedia corale. Finale “titanico”. Per appassionati e non. Voto – 8.
Genere: Commedia/Musicale
Durata: 123’
Inghilterra, 1966: al largo del Mare del Nord una nave carica di sound lotta contro un’assurda legge che limita la diffusione del Rock’n’Roll a sole due ore a settimana. 8 dj e un equipaggio da tregenda sfidano 24 ore su 24 la pazienza del meschino ministro Dormandy (Kenneth Branagh) che, deciso a proclamare il suo intimidatorio Marine Broadcasting Offences Act , minaccia di dichiarare come veri e propri fuorilegge i pirati della musica. Lateralmente ispirato alla vicenda di Radio Coraline, I love Radio Rock non è un semplice e dovuto tributo alla musica “ribelle” di quei tempi ma anche un sentito omaggio a chi cercava tra le frequenze della radio, nascosta sotto il cuscino, il sapore della libertà emotiva. Si succedono come da protocollo i Rolling Stones, gli Who, i Kniks e tutti coloro che hanno condotto il Regno Unito nel Gotha del Rock’n’Roll. Il corollario musicale è supportato da un cast magicamente “stoico” (Philip Seymour Hoffman non ne sbaglia una) e da una regia (il Richard Curtis di Love Actually – L’amore davvero) votata ai meccanismi volutamente sobri della commedia corale. Finale “titanico”. Per appassionati e non. Voto – 8.
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