martedì 28 febbraio 2012
Virus - L’inferno dei morti viventi (Vincent Dawn, 1980)
Cast: Frank Garfield, Margit Evelyn Newton, Selen Karay, Robert O’Neil, Gaby Renom
Genere: Horror
Durata: 93’
Paese: Italia/Spagna
Voto: 8.5
Nuova Guinea: all’interno di una centrale atomica un ratto imbizzarrito morde un addetto ai lavori che, dimenandosi selvaggiamente, apre accidentalmente una valvola dalla quale fuoriesce gas tossico capace di trasformare i morti in esseri affamati di carne umana. In un attimo Pandora è assediata dagli zombi. Scusate intendevo la Nuova Guinea: i morti viventi colorati di blu traggono in inganno. Insomma chi ci salverà da questo cataclisma??? La risposta giunge puntuale nella scena successiva mostrandoci uno spietato corpo d’assalto impegnato nello strappare un gruppetto d’ostaggi dalle mani di imbranati terroristi. Tale blitz sanguinolento (sottolineato da omicidi gratuiti) è il biglietto dai visita dei quattro SWAT protagonisti del film: l’organizzatore dagli occhi di ghiaccio, il mistico, lo gnomo farsesco e l’inutile. Al quartetto vanno aggiungendosi una donna dalle trovate geniali ed un cameraman con la fissa per i primi piani. Il viaggio all’inferno è appena iniziato. Bruno Mattei, alias Vincent Dawn, è il regista d’emergenza degli anni ’80, perché capace di trarre il massimo con il minimo del budget, e non fa nulla che realizzi tali imprese con azioni ai limiti del decoro cinematografico ovvero scopiazzando, inserendo scene già viste (voli di fenicotteri e aironi a iosa) ed allungando il brodo con spezzoni presi da altri film (la parte centrale, secondo “Cripte e Incubi” è estrapolata per intero da Nuova Guinea, l’isola dei cannibali). Il suo stile è anarchico da qualsiasi angolazione lo si osservi; la planimetria narrativa non ha alcuna affinità con quelle di un racconto standard, i momenti ad alta tensione sono posizionati alla carlona (la maggior parte all’inizio) alterando qualsiasi virtuale linea emotiva. Inoltre Mattei si diverte (consapevolmente o non? mi chiedo) ad abusare di tanti stereotipi del genere e al contempo violarli quando adopera scelte inedite, vedi l’esagerato accanimento sul bambino zombi e il fantasioso messaggio finale. Che poi il film sia la versione frullata dello Zombi (1978) di Romero, dal quale ruba l’intera colonna sonora dei Goblin e svariati momenti narrativi - il raid dell’incipit, il caos creato dai media e gli stessi personaggi – è soltanto l’ultimo dei problemi. Un gran casino insomma, esacerbato dalle performance allucinate dei protagonisti; sugli scudi senza dubbio il tarantolato Santoro (Frank Garfield/Franco Garofalo) che, perdendo la trebisonda ogni 10 minuti, si lancia a capofitto tra gli zombi tentando di ammazzarli a suon di sboccati vituperi e elucubrazioni sul senso della vita. Altrettanto efficace ma nettamente più trash Margit Evelyn Newton che oltre a detenere un numero infinito di primi piani con urlo annesso, si rende autrice della più sensazionale scoperta antropologica del millennio, l’abbattimento delle barriere comunicative tramite l’uso del body language pittorico. Vederla correre con le tette ballonzolanti, dipinte come dei bersagli, è la seconda cosa più assurda che abbia mai visto. La prima? Uno zombi che sale al volo in auto abbassando la testa per non sbattere nella portiera. Fenomenale. Mi son chiesto come da solo Mattei abbia potuto creare tale divertente abominio, poi notando il Claudio Fragasso di Troll 2 quale assistente regista qualche dubbio è andato svanendo. Voto: 8.5
sabato 25 febbraio 2012
Trolls 2 (Claudio Fragasso, 1990)
Cast: Michael Stephenson, George Hardy, Margo Prey, Connie McFarland
Durata: 83’
Genere: Fantasy/Horror
Paese: Ita/Usa
Voto: 5.5
Quando dopo 2 secondi ho visto ruggire il leone della MGM ho temuto di trovarmi dinanzi a un cinema di qualità (non che la Metro-Goldwin abbia sfornato queste pietre miliari) e d’aver ovviamente sbagliato film, poi in fretta e furia il nome di Drake Floyd (obviously Fragasso in incognito) è giunto a tranquillizzarmi come un’amorevole balia: “Non avere paura fanciullo sono il trash che stavi cercando”. Sottolineando che Troll 2 nasce per sfruttare il successo (?) riscosso dal Trolls di John Carl Buechler e che l’ambientazione negli States, con cast tecnico e artistico made in Usa, è frutto della necessità dell’italiana Filmirage d’apparire più figa, il prodotto di Fragasso è il più classico degli horror a stampo fantasy. Al piccolo Josh il nonno defunto accorre in sogno come un oracolo narrando storie di folletti alquanto malefici (e qui parte una ricostruzione favolistica chiaramente debitrice della Biancaneve porno apparsa in passato su emittenti televisive di terza fascia) al fine di impedire in qualche modo l’imminente partenza della famigliola per la bucolica cittadina di Nilbog, il cui spelling esacerbato in mille modi vorrebbe farci notare che riletto al contrario potrebbe celare qualche nefasto significato. Ma oramai la frittata è fatta; Nilbog, N-I-L-B-O-G, 26 abitanti, è la madrepatria dei folletti di cui sopra. Neanche i tentativi disperati di Josh (tra cui una pisciata sul pranzo) scongiureranno la tragedia. Da dove iniziare per giudicare un’opera del genere?? Mi soffermerei prima di tutto sui protagonisti: esclusi gli attori di contorno, tra cui spiccano i sosia di Roberto Mancini e Kakà, il film verte sulle gracili spalle dell’acuto Josh (figlio di un frontale tra lo storico testimonial della Kinder e un missile Patriot) e su quelle più attempate del nonno che, invocato ogni 5 minuti dal pargolo, va umiliandosi apparendo negli specchi di casa sfoderando soluzioni talmente assurde da spacciare quelle del Batman di Adam West come idee assolutamente fattibili. Non tralascerei l’interpretazione mefistociofechica di Connie McFarland, nel ruolo della nemesi di Josh, il cui trucco da baldracca zombi affogata nel cerone credo sia il peggiore di sempre. Le chicche sono però da ricercare nel settore del make-up; le pietanze verdognole hanno un loro perché mentre i mascheroni dei goblin, a cura di Maurizio Trani, sono così obbrobriosi e posticci da far passare i rettiloni giapponesi come manifesti del neorealismo. In fondo di horror c’è ben poco ma a Troll 2 va il merito d’aver accalappiato schiere di fan oltreoceano. Se non mi credete cercate il documentario The Best Worst Movie, girato nel 2009 proprio da Michael Stephenson, che esamina i fattori che hanno contribuito a trasformare l’abominio di Fragasso in una pellicola di (s)culto. Che il film abbia lasciato delle indelebili tracce sulla psiche del piccolo Josh è abbastanza chiaro. Voto: 5.5.
martedì 21 febbraio 2012
Paganini Horror (Luigi Cozzi, 1988)
Cast: Jasmin Main, Daria Nicolodi, Pascal Persiano, Maria Cristina Mastrangeli, Luana Ravegnini, Donald Pleasence
Durata: 80’
Genere: Horror
Paese: Italia
Voto: 7 della scala Trash
Ebbene sì, non erano dicerie quelle che etichettavano Paganini Horror come uno dei trash imperdibili per i filospazzaturai del cinema italiano. Credevo non ci fosse più spazio nel gotha della filmografia tricolore accanto a capolavori come La croce dalle sette pietre e Il Bosco 1, invece un posticino di riguardo riesce (in)decorosamente a ritagliarselo questo film a dir poco raccapricciante. Una band rock all-women vive un periodo di crisi a causa di una forte carenza di idee - e soprattutto di talento - fin quando l’amico Daniel riesce ad accaparrarsi, con un accordo degno del Faust, uno spartito composto niente popò di meno che dal musicista Nicolò Paganini. Senza esitare il gruppo opta per una revisione del pezzo in chiave rock ambientando il video nella villa appartenuta proprio al celebre violinista, ma lo spirito di quest’ultimo, addobbato come il fantasma dell’opera alla corte del Re Sole, è pronto a mietere vittime. Credo nella buona fede del regista Cozzi (il suo filtro blu è come la steadycam per Marfori) che ha visto dilapidarsi il budget per il casting (anche se non si direbbe ma alcuni attori sono di calibro) e le scenografie, consistenti in un’accozzaglia di tende e manichini. Spesi tutti i soldini il produttore avrà poi scelto di rinunciare ad uno sceneggiatore dato che gran parte del film si basa su un andirivieni infinito tra l’esterno e l’interno della dimora. All’esterno con i protagonisti che invocano a gran voce amici che non faranno mai più ritorno: “Daaaaaaaaaaaaaaaaaaniellllllllllllllllllllll”, “Kaaaaaaaaaaaate”, “Daaaaaaaaanieeeeeeeeeeeeeel”, “Kaaaaaate” e mai domi “Proviamo a chiamarli di nuovo”, “Daaaaaaaaanieeeeeel”, “Kaaaaaaaaaate”. All’interno con momenti di rara beltà trash quando dinanzi ad amici in avanzato stato di putrefazione c’è chi sciorina una prognosi da Discovery Channel: “Questa muffa la conosco… è un fungo che cresceva soltanto nel ‘700, su alcuni tronchi del Nord Europa che servivano a produrre i violini più pregiati come gli Stradivari”. Madre de dios. E questa è soltanto una delle gemme rilasciateci da dialoghi mai sopra le righe (nooo mai), con disquisizioni su palesi alterazioni spaziotemporali e innumerevoli spiegoni a ribadire concetti compresi dopo la prima scena – come a dire “Spettatore hai capito cosa sta succedendo?? Perché te lo spiego di nuovo!!”. Lo spauracchio di Paganini che, colpito da un raggio di sole, si scioglie come un vampiro qualunque è un finale degno di questo capolavoro del non sense. Voto: 7
domenica 19 febbraio 2012
Quarantena 2: Terminal (John Progue, 2011)
Genere: Horror
Durata: 80’
Paese: USA
Voto: 5.5
Dopo l’algido copia e incolla del primo capitolo ai danni di REC tutti s’aspettavano un ovvio remake senza spessore del suo sequel e invece Quarantena II prende tutt’altra strada, discostandosi immediatamente dal prototipo iberico. Siamo su un aereo e, tra i pochi passeggeri presenti, un tizio viaggia in compagnia di alcuni criceti ecuadoregni che a sua insaputa (o forse no) sono portatori di un virus capace di trasformare l’essere umano in uno zombi rabbioso e dinamico; in verità più stile 28 giorni dopo che alla REC. Al regista non interessa il quadro psicologico dei personaggi - liquidato nei primi dieci minuti dove ognuno accenna al suo passato o ai progetti futuri in modo fastidiosamente didascalico – ma soltanto lo sviluppo horror/action della trama, che può dar finalmente fiato alle trombe quando un obeso sudaticcio, morso da uno dei criceti, inizia a sbavare e vomitare copiosamente finendo per aggredire i membri dell’equipaggio. L’aereo, dirottato suo malgrado verso un vicino aeroporto, “scarica” i suoi passeggeri in un gate dove poter raggiungere l’agognata salvezza. E invece no! Il gate è prontamente messo in quarantena perché nel frattempo il virus si è sparso in altre metropoli. Uscirne vivi sarà un’impresa. In questo film, dal taglio maledettamente televisivo, a salvarsi sono l’idea di ambientare il tutto in un aeroporto e il coraggio di fondo nell’affrontare un genere ricco di trappole, ma si pecca vistosamente nel creare la suspense (regia non pervenuta e colpi di scena bruciati da inquadrature matrimoniali) risultando, in più, irritante quando fa capolino quella furbizia sgamata nell’usare congegni narrativi già visti altrove. Da un lato si è tentati nel classificare Quarantena 2 quale prodotto dignitosamente di serie B, dall’altra si ha paura di etichettare come godibile un collage di luoghi comuni, tanto pieno di bava quanto purtroppo privo di sangue. Voto: 5.5.
giovedì 16 febbraio 2012
Hellraiser: revelations (Victor Garcia, 2011)
Genere: Horror
Durata: 75’
Paese: Usa
Voto: 4.5
Dal challenge delle saghe infinite sbuca il nono capitolo di Hellraiser, franchise inizialmente tra i più riusciti, ma indubbiamente nel tempo meno affascinante dei vari Nightmare o Venerdì 13. Chi ha voluto aggiungere un ultimo tassello alle vicissitudini del mefistofelico Pinhead risponde al nome di Victor Garcia. “Victor chi??” vi starete chiedendo. Beh a tale domanda neanche il sottoscritto ha saputo controbattere, ma pare che questo Garcia abbia passato la vita a creare esseri di gomma per la Filmax. Non è Wes Craven insomma (fortunatamente aggiungerei). A dargli manforte alla sceneggiatura c’è un tale Gary J. Tunnicliffe che a questo punto additerei quale autore di questo pasticciaccio, scagionando l’ignoto Garcia che se la cava sufficientemente. Infatti se nei primi 15 minuti la trama sembra avere le idee chiare mostrandoci i due scavezzacolli Nico e Steven fuggire in Messico in cerca di sballo, per renderci partecipi prima dell’uccisione di una prostituta e poi del risveglio di Pinhead a causa del consueto magic box, quando Steven torna a casa sotto shock, portando con sé il Male in persona, il plot s’accartoccia bruscamente. La storia a questo punto vorrebbe imboccare diverse strade narrative. Peccato che le imbocchi tutte contemporaneamente… e contromano; c’è un po’ di dramma familiare, con tanto di corna trasversali, un ragazzo che imbraccia un fucile tenendo sotto scacco i propri cari, che fa molto Bowling a Columbine, e infine udite udite c’è anche l’horror, racchiuso nelle poche apparizioni del povero Pinhead che ha la faccia di chi vorrebbe dirci “Ehy nel titolo c’è il mio nome, ve ne siete accorti???”. Per fortuna c’è un po’ di splatter nudo e crudo, per sfortuna si manifesta sempre allo stesso modo, ovvero sottoforma di uncini che squarciano le guance o il collo. Ma se a soffrire le pene dell’inferno sono degli attori credibili quanto un ristorante italiano a Pechino (tra tutti spiccano un pater familias monoespressivo e una donna che dall’alto dei suoi 30 anni dovrebbe interpretare la mamma di un venticinquenne) allora è tutto sangue che cola. Voto: 4.5.
martedì 14 febbraio 2012
Il Bosco 1 (Andrea Marfori, 1986)
Cast: Coralina Cataldi Massoni, Diego Ribon, Luciano Crovato, Elena Cantarone, Stefano Molinari
Genere: Horrortrash
Paese: Italia
Durata: 82’
Partito ufficialmente alle calende di febbraio il primo “Horror Trash Contest” in casa Masturzo: a lanciare la sfida ad Andolfi e al suo La croce delle sette pietre è Andrea Marfori, che dopo essersi accaparrato oltreoceano una steadycam a buon mercato, decide di portarla in Italia e usarla a cazzo girando contemporaneamente il suo debutto ed addio alle scene. Il Bosco 1 nasce come tributo all’horror La Casa (la steadycam non è casuale) e, visto l’assurdo titolo, anche come pretestuoso capostipite di una saga che purtroppo (ebbene sì, purtroppo!!) implode dopo appena un capitolo. Eppure di carne a cuocere ce n’è parecchia. L’incipit, di quelli impetuosi, ci conduce in un casolare dove una giovane donna – ammaliante come un opossum – prima seduce e poi evira un ragazzotto ignaro che tra le gambe della tipa risieda una mano demoniaca invece della più classica vagina. Poi l’azione (in senso lato) si sposta su una coppia in vacanza sulle Alpi; l’aitante Tony e la dinoccolata Cindy, che “l’impercettibile” accento ci suggerisce quale americana, sono di ritorno da Venezia e hanno intenzione di trascorrere un tranquillo soggiorno a base di pesca, relax e demenza puerile. Il paesino pronto ad ospitarli è tra i più desolanti dell’universo e inoltre detiene il record minimo di densità popolosa: 2 abitanti su svariati ettari di superficie. Se poi i 2 abitanti risultano l’uno, lo Stephen King dei poveri, l’altra, l’opossum demoniaco dell’incipit, allora il primato è ancor più singolare. Ma Tony e Cindy, fieri baluardi dell’ingenuità, s’affidano prima allo scrittore in erba, che nonostante sembri un incidente frontale tra James Bond e il Barone Rosso, sembra voglia metterli in allerta, poi alla donna dal naso aquilino che promette loro di condurli in un affascinante chalet. A questo punto Marfori compie il capolavoro, un colpo da biliardo destinato a proiettarlo nell’olimpo dei cineasti pluridecorati: l’horror, presentatoci irruentemente nella prima scena, scompare per cedere il passo ad un suggestivo documentario sul trekking di 35 minuti. Il regista, ricordandoci perennemente l’affarone della steadycam, ci lascia in compagnia dei protagonisti e ci invita ad accompagnarli all’estenuante ricerca del tanto decantato casolare. Una mezzoretta abbondante tra vialetti, foglie, rami e ancora vialetti, foglie e rami. Al calar delle tenebre la coppia, coadiuvata dall’opossum in calore, giunge a destinazione, ovvero una stalla fetida e umidiccia dove, suggellata la vera natura della terza incomoda, la trama scioglie i suo nodi narrativi. Dal nulla sbuca l’evirato della prima scena, che tramutatosi in un rapidissimo zombi, ha intenzione di trasformare il bosco (1, ovviamente) in un terreno di caccia. Ecco il delirio irrompere in una sceneggiatura sin qui lineare: chi impazzisce, chi si trasforma in un vampiro, chi s’improvvisa eroe rimettendoci le penne e chi fugge a zig zag. Tutto è ridondante, sopra le righe. I momenti cult vanno susseguendosi senza sosta. Lo zombi con un masso amputa di netto le mani al ragazzo che di lì in poi, per camuffare ai nostri occhi la mutilazione, gira per il bosco con dei polsi di mezzo metro. La fidanzata, evitando di chiedere lumi sull’accaduto, prova a cauterizzare le “ferite” con un po’ d’acqua (le testuali parole “Vado a prendere un po’ d’acqua fresca” fanno rabbrividire il “Ma quaggiù è buio” di Schettino). E non è ancora nulla se poi vediamo: 1) Tony, senza mani, che attende tranquillamente l’arrivo dell’acqua fresca 2) la fanciulla che costruisce con delle torce una roccaforte, espugnabile dall’ultimo arrivato 3) lo zombi che arpiona Cindy con una canna da pesca 4) la testa decapitata di Tony con in bella mostra l’etichetta della parrucca e 5) il gran finale con la sconfitta del mostro perpetrata col riflesso in uno specchietto. Da non sottovalutare il sottofinale che preannuncia un sequel che spero a distanza di 26 anni qualcuno si prenda la briga di girare. E’ un gran bel trash Il Bosco 1, che nonostante un budget considerevole, resta comunque una spanna sotto La croce delle sette pietre del maestro Andolfi. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se ad acquistare quella steadycam fosse stato proprio Eddy Endolf!! Voto: 8
lunedì 13 febbraio 2012
Attenti a quei due
Intervista a Ciro Longobardi e Giovanni Masturzo, sceneggiatori di Rewind
1. Per lei è la prima esperienza nel settore. Qual è stato il suo approccio con la sceneggiatura di "Rewind"?
CL: in effetti, la difficoltà maggiore è stata rapportare un'idea ampia, quasi infinita, ad uno spazio ristretto. Fortunatamente l'apporto dato da tutti i collaboratori ha fatto sì che si potesse ricreare quell'atmosfera originariamente immaginata.
GM: in realtà sono alla mia seconda esperienza; 2 anni fa ho scritto la sceneggiatura di Avatar insieme ad un bambino di 6 anni e ad un ornitorinco italo-australiano.
2. E' stato facile elaborare uno script basandosi su un'idea tratta dall'idiozia di Umberto de Giuseppe?
CL: ma veda, il tutto si risolve nel prendere l'idea di Umberto e modificarne tutti gli aspetti per lui importanti. In pratica, se l'idea di Umberto è un cerchio, noi adottiamo il quadrato.
GM: Rewind si basa su un’idiozia di Umberto De Giuseppe??? Ma state scherzando? Io credevo fosse tratto da un romanzo di Philip K. Dick; questo è quanto mi è stato detto dalla produzione.
3. La scelta di ridurre i dialoghi all'osso è un omaggio al cinema muto?
CL: non direi (ride, ndr). Come già accennato, è stata una scelta ponderata, anche perché una persona sola in casa non sempre si prodiga in lunghi monologhi.
GM: concordo col mio collega, ma egli ben sa che tra le righe il nostro è un serafico tributo al cinema hardcore ed ai suoi script scarnificati. Inoltre una prima stesura prevedeva un cameo del mio caro amico Peter North che ha purtroppo dato forfait a causa di un impegno lavorativo a San Diego. Abbiamo quindi optato per Sebastiano Somma; mossa che si è rivelata alquanto acuta.
4. Scrivere in coppia ha agevolato la stesura del copione?
CL: direi di si. Anche se le battute in "Rewind" sono poche, sono fondamentali per creare quell'atmosfera incalzante che porta poi lo spettatore a scoprire la verità.
GM: Ciro è un sovrumano bacino di idee da cui attingere a piene mani. Ciò non toglieva fosse uno spasso contraddirlo senza remora alcuna: quando lui esponeva un concetto io ne proponevo un altro opposto nei contenuti, tale contrasto produceva una terza idea la quale si dimostrava repentinamente efficace. Sappiamo tutti che Ciro è un gran rompiscatole (Ciro si alza e gli spacca una sedia dietro la schiena, ndr).
5. Per la caratterizzazione del personaggio interpretato da Domenico Melisi da quale grande attore del passato avete tratto ispirazione?
CL: io reputo Domenico un attore nuovo, moderno, non legato a nessun grande attore del passato. Credo che la sua interpretazione sia frutto di una sua personale esperienza, vera, fatta di problemi quotidiani.
GM: beh non posso negare d’aver pensato al Bruce Willis di The Sixth Sense, ai suoi sguardi stranianti, a quella performance sotto le righe. Ma la camminatura da guascone e la voluta faccia da pirla sono palesi omaggi al mammasantissima del cinema contemporaneo Nicolas Cage.
6. Progetti futuri?
CL: mi piacerebbe continuare questa collaborazione con Giovanni, abbiamo già in cantiere qualche idea, abbiamo bisogno soltanto di svilupparla per bene. Non vorrei mai che per colpa della fretta di un secondo lavoro, lo stesso possa risentirne.
GM: 3 giorni orsono i vertici della Fox mi hanno contattato perché in cantiere c’è lo script di una nuova serie fantascientifica ambientata su Saturno, mi hanno offerto 20000 euro affinché io non partecipi al progetto. Per il resto continuerò a lavorare con il Longobardi, abbiamo svariate idee per il futuro, tutte appuntate sul nostro vetusto quadernone, quest’ultimo purtroppo volato via venerdì scorso a causa di un forte libeccio; il produttore De Giuseppe non ha stanziato la cifra necessaria per l’acquisto di un portatile, sostiene che il budget vada speso soltanto per il catering.
domenica 12 febbraio 2012
I spit on your grave (Steven R. Monroe, 2010)
Cast: Chad Linberg
Genere: Horror Revenge
Durata: 110’
Paese: Usa
Voto: 6
Giovane scrittrice in cerca d’ispirazione affitta un’enorme baita in una landa desolata. Il paesaggio non è malaccio. Il grande problema risiede nelle poche persone che lo abitano: tutti con qualche rotella fuori posto. Ma la ragazza è sin troppo eccitata per percepire il principio di tragedia innescatosi. Infatti mentre noi spettatori abbiam già fiutato l’andazzo, e ci chiediamo come faccia la tipa a “cercare l’ispirazione” tra cigolii sinistri e tetri casolari, ecco irrompere il dramma nelle vesti di 4 teddy boys (uno di essi è il classico scemo del villaggio sessualmente turbato). Il motivo di quella che certamente non è una visita di cortesia è presto intuibile, ma i ragazzacci perdono tempo nel manifestare il proprio ego, tra canne di pistola infilate in bocca e umiliazioni verbali, facilitando la fuga della ragazza che, raggiunto il bosco adiacente, si imbatte nello sceriffo locale. Sospiro di sollievo??? Sti cazzi!! Il braccio violento della legge è in realtà il mammasantissima di tutti gli squilibrati e dopo aver riaccompagnato la ragazza alla baita dà inizio al secondo tempo della vessazione. Si parte con lo sverginamento del mentecatto per finire con la sodomia irreversible dello sceriffo. La scrittrice, ridotta a uno straccetto, si dirige zombescamente verso un ponte e in barba agli aguzzini si getta nel fiume. Sarà morta? Chi lo sa! Nel frattempo si fanno scomparire le prove e lo sceriffo torna tra le mura domestiche dove si mostra quale padre amorevole e responsabile. Ma la legge del taglione è dietro l’angolo. La ragazza risorge dalle acque come l’araba fenice e, mettendo in atto delle torture che a confronto Jigsaw è un misericordioso principiante, uccide i suoi stupratori. C’è chi affoga nella soda caustica, chi diviene un banchetto per corvi e chi si ritrova senza denti e con il birillone nella faringe. Il dessert è la canna di un fucile su per il culo dello sceriffo. In un paese, dove nessuno si chiede niente, giustizia è fatta. Peccato che la trama per quanto credibile e inquietante nella prima oretta prenda una piega assurda nella fase revenge; una lady vendetta capace, a poche ore da uno stupro inumano, di mantenere la stessa freddezza di Valentino Rossi al cavatappi di Laguna Seca, appare fantascienza allo stato puro. Il regista sembra divertirsi troppo nel costruire le torture scaraventando l’istinto omicida della giovane fanciulla nel baratro dell’autocompiacimento e inchinandosi ai canoni del moderno torture porn. Film sadico al punto giusto ma negli intenti trito e ritrito. E poi vogliamo elencare i luoghi comuni?? Sceriffi psicopatici, cellulari rotti, meccanici bifolchi e via dicendo? Il titolo vuol dire letteralmente “Io sputo sulla tua tomba”. Voto: 6.
Rewind (Giovanni Masturzo, 2011)
Cast: Domenico Melisi, Franca Varriale, Ciro Longobardi, Lucia De Iulio, Umberto De Giuseppe, Giovanni Masturzo, Carlo “Sebastiano Somma” Melisi
Anno: 2011
Durata: 8’
Paese: Italia
Genere: Horror/Thriller
Giunge dall’Italia il cortometraggio dell’anno, non presente all’ultimo Festival di Venezia e plurignorato a quello di Cannes. Tratto da un’idea sbagliata del pioniere degli handycam movie, Umberto De Giuseppe, e costato appena 60 euro (cifra interamente spesa per il catering), Rewind è l’opera prima della neonata Mother’Eye Production, sorta dalle ceneri della fallita Grandmother’s Eye Production. Trama semplice ma egregiamente imprigionata in una sceneggiatura a prova di bomba: un ragazzo (interpretato dall’antidivo Domenico Melisi) rimasto da solo in casa data l’assenza della madre, avverte strani rumori che, in un crescendo rossiniano, si riveleranno essere fenomeni paranormali. Colpo di coda finale. Masturzo, in palese debito con la filmografia targata Shyamalan, dirige un melodrammatico horror improntato, ai confini del cinema muto, su una trovata (scritta a 4 mani con il geniale Longobardi) funzionale al suo camaleontico protagonista. Un marchingegno letteralmente ad orologeria che sebbene sembri compiacersi spesso dei suoi studiati ingranaggi, supportati da svariati virtuosismi di montaggio (vedi le scene in reverse e fast forward), non risparmia un messaggio etico sul valore dell’amicizia e una stoccata ad un’Italia malinconicamente ancorata al focolare domestico. Una favola gotica per adulti, per un plot - forse esageratamente - a tenuta stagna che è valso a Rewind l’etichetta di Manifesto del Neoermetismo. Sugli scudi Domenico Melisi (dichiarato seguace del Metodo) capace di infondere allo spettatore, ammansendo la voluta staticità della mdp, una straniante sensazione di inadeguatezza, attirandolo prima nella propria solitudine e poi scaraventandolo nell’angosciante baratro di una nuova lacerante dimensione, rappresentata quest’ultima da uno struggente collage finale dove esplodono l’insicurezza, la fragilità, le lacune dell’animo umano. Da segnalare l’apparizione lampo del regista nei panni di Charlot e il cameo accreditato di Sebastiano Somma, oltre i titoli di coda, nel ruolo di un ciclista guascone. Voto: 8.
sabato 11 febbraio 2012
La croce dalle sette pietre (Marco Antonio Andolfi, 1987)
Sarebbe fiero di noi Marco Antonio Andolfi nel sapere che 5 tizi in un posto non bene definito del pianeta Terra hanno scelto di visionare il vero, unico, grande capolavoro dell’horror italiano. Merito del nostro “Z-Movie Scout” che tempo addietro ci segnalò questa perla del firmamento cinematografico, conosciuta ai vari proseliti come La camorra contro l’uomo lupo, ma ufficialmente distribuita con il titolo più gotico di La croce delle sette pietre. Il film si apre guidandoci nei meandri di una danza orgiastica a tinte esoteriche dove il demone Aborym, conciato come il Cornelius de Il Pianeta delle scimmie, va accoppiandosi con sgualdrine accondiscendenti, il tutto coordinato da un master of cerimonies dal ghigno malefico. Poi l’azione si sposta a Napoli per presentarci il protagonista Marco (interpretato da Eddy Endolf, ovvero il regista sotto mentite spoglie), giunto nel capoluogo campano in visita ad una cugina che nemmeno si ricorda della sua esistenza, e dove dopo appena 200 metri dall’uscita della stazione Garibaldi due balordi gli scippano un prezioso amuleto: esso è una croce gemmata che ha il potere di impedire la trasformazione dell’uomo in un licantropo allo scoccar della mezzanotte. Marco è infatti il figlio di Aborym, ma sembra tutt’altro felice di esserlo. Dopo quest’incipit adrenalinico da crossover, dove torture-porn e cinema di denuncia si fondono per creare un originale modello di ispirazione per i posteri, Andolfi opta per una strada più pacata, scaraventando il protagonista nel baratro della criminalità organizzata alla ricerca dell’indispensabile talismano. Tra boss partenopei e mammasantissima siculo-americani (“fetuso son of bitch”) Marco, dopo aver intrapreso un viaggio nel suo cuore di tenebra e scoperto gli inevitabili benefici di una maledizione mannara (trasformatosi in uomo lupo sterminerà i suoi aguzzini), arriverà a Roma pur di recuperare il gioiello. Plot alquanto lineare nella seconda parte che risulterebbe scontato e tedioso se non fosse per le brillanti doti teatrali di Andolfi che, saggiamente sotto le righe seppur guascone in un paio di nudi frontali, s’affida a dialoghi dilatati oltremisura, interrotti qui e lì da smorfiette basite o sguardi tenebrosi. Attori di contorno tutti in parte, un plauso alle musiche mai ingombranti e standing ovation al sommo Adolfi che ha scelto di recitare in prima persona tutti gli stunt (da pelle d’oca il volo sul tavolino) senza mai cercare supporto in una banale controfigura. Nota di merito per la scena della trasformazione, che non ha nulla da invidiare a quella di Un lupo mannaro americano a Londra, culminante nell’uso di una lanuginosa maschera di raro realismo che farebbe rabbrividire in quanto a credibilità il King Kong di Rambaldi. Insomma un capolavoro per palati fini, da scovare, vedere ed ammirare. Al termine della proiezione, come il protagonista, vi chiederete sbalorditi: “Ma cosa mi è successo??”. Voto: 10.
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