Cast: Keanu Reeves, Jennifer Connelly, Kathy Bates, John Cleese
Genere: Fantascienza
Durata: 103’
La Terra ha vita breve. Questo è il messaggio che da anni aleggia nei “migliori cinema” del nostro pianeta. 2012 (Roland Emmerich), il più recente tra gli epitaffi scalpellati su antiche e mal interpretate profezie, sarà il primo a cadere nel dimenticatoio tra i rimasugli di The Core e la cenere del ciclo Alta Tensione di Canale 5. Ultimatum alla Terra no. Remake del cult by Robert Wise, mi era stato sconsigliato nottetempo per la sua anonimia visiva. Alla domanda “come è stato questo film?” seguiva un agglomerato di eh, mah, boh, non lo so. Pian piano analizzando le espressioni, in allegato ai suddetti intercalari fonetici, ho appreso che c’era qualcosa di fondo, un verme untuoso che mi suggeriva di ripescarlo. E la risposta è giunta lapalissiana; il film di Scott Derrickson (The Exorcism of Emily Rose) non fa casino. I momenti puramente action sono rari quanto le interpretazioni di rilievo dei fratelli Baldwin. Nessun inseguimento in auto tra grattacieli caracollanti, nessuna Statua della Libertà che va a muro contro un’ondata di tsunami e nessun John Cusack con capelli scompigliati da un tornado. Una catastrofe col silenziatore. E un messaggio allarmante che veste i panni di un serafico eco-salvatore (Keanu Reeves): bisogna salvare la Terra. Da chi?? Dall’uomo. Voto - 7
sabato 19 dicembre 2009
domenica 6 dicembre 2009
Riflessi di paura (Alexandre Aja, 2008)
Cast: Kiefer Sutherland, Paula Patton, Amy Smart
Genere: Horror (?)
Durata: 101’
“Attenzione all’interno di questa sala saranno proiettate immagini nelle quali compare Kiefer Sutherland”: questo dovrebbe essere il vessillo affisso all’ingresso di tutti i cinema i quali abbiano il coraggio (e avranno) di mettere in contatto l’attore del serial 24 con la gentile clientela. E’ un odio a pelle? Dettato dai pregiudizi? No. Basta soffermarsi a contemplare quella faccia da cane bastonato. Scoccia dopo appena 5 minuti. Dopo 10 risulta irritante. E’ assurdo che un attore che possieda la stessa vivacità fisionomica del Monumento ai Caduti continui ad allietarci anche sul grande schermo. Esistono attori nati per recitare in telefilm, serial, fiction e sit-com. Beh, Kiefer Sutherland è uno di quelli. Don Siegel disse di Clint Eastwood che avesse soltanto due espressioni; una col cappello e una senza cappello. Kiefer Sutherland è dotato di un’unica e sempiterna espressione dipinta sul volto, che, riassunta con 5 parole, decanta: “Ma dove cazzo sono capitato?”. E’ la stessa domanda che si pongono i poveri spettatori colpevoli (ma non sapevano che c’era Kiefer) di aver scelto un suo film. In questo caso ci ha messo del suo anche Alexandre Aja bravo nell’ illudere i cinefili con il tanto discusso Alta Tensione ma addirittura eccezionale nel fugare con questo bidone tutti i dubbi sulle sue capacità. Di storie su vecchie maledizioni e su entità alberganti in specchi infrangibili ne abbiamo piene le tasche; e non mi soffermo sugli effetti digitali e sul finale obbrobrioso. Inserite al mix quel bel faccino del meno riuscito dei fratelli Sutherland e allora avrete 100 minuti di tempo libero per interrogarvi sul senso della vita. Voto – 3.
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domenica 15 novembre 2009
Vincere (Marco Bellocchio, 2009)
Cast: Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi, Michela Cescon
Genere: Drammatico
Durata: 121’
Ripescata (tramite un documentario passato su Rai3) e portata sullo schermo da Bellocchio, che negli ultimi anni sembra essersi appassionato alla causa politica del nostro paese(bellissimo, sul caso Moro, Buongiorno, notte), Vincere è la rilettura fedele (almeno si presuppone) di una pagina oscura della vita di Benito Mussolini. Il segreto di cui stiamo parlando può tranquillamente assumere le tonalità di uno scandalo; molti ignorano (perché i libri di storia non ne parlano?) che durante i primi anni di “carriera” politica - promotore del socialismo e direttore dell’Avanti - Mussolini (appuntate questo nome per il futuro, Filippo Timi) conobbe Ida Dasler, amante e moglie, da cui ebbe il suo primogenito, Benito Albino. Il figlio fu inizialmente riconosciuto, poi rinnegato in un secondo momento (e gli fu affibbiato un altro nome). Da quel momento inizia il calvario di Ida che disperatamente tenta di rivendicare l’identità del pargolo lottando contro l’inarrestabile regime fascista che nel frattempo cerca di cancellare qualsiasi traccia o legame che possa ricondurre la figura del Duce a quella della donna. Perdendo una battaglia, in realtà mai combattuta, Ida si ritroverà a gridare la sua libertà tra le mura asettiche di un manicomio. Condotta gradualmente alla follia resterà vividamente lucida per non scendere a compromessi col sistema. Sullo sfondo l’ascesa del Duce inframmezzata da vecchi reperti storici; tra i quali il celebre “Vincere… e Vinceremo!!”. Oggi si condanna con qualunquismo l’ideologia politica di Mussolini e di tutti i cittadini che l’hanno osannato, ma è fondamentalmente innegabile riconoscergli le doti oratorie e carismatiche impiegate nelle sue teatrali performance. Dovremmo chiederci che tipo di ascendente avrebbe avuto su di noi se invece di nascere negli anni ‘80 fossimo nati negli anni ’20. Avremmo deriso le parole del Duce o avremmo guardato da una piazza lassù in alto verso quel balcone con espressione estasiata?? Voto – 7.5
giovedì 12 novembre 2009
Questione di cuore (Francesca Archibugi, 2009)
Cast: Kim Rossi Stuart, Antonio Albanese
Genere: Commedia
Durata: 104’
Nessun film d’amore. Nessun gateau smieloso. Nessuna stupida paccottiglia. Il cuore del titolo è quell’organo pulsante, il motore della vita, che se smette di sbattere allora son guai. Lo sanno bene Alberto ed Angelo, colti all’unisono da un infarto tremendo, che trovando ricovero nella stessa stanza d’ospedale ne approfittano per stringere un’amicizia dai toni eroici. Il primo - un incredibile Antonio Albanese – è un ottimo sceneggiatore, specializzato nell’immaginare la vita altrui, che conosce tanta gente (Carlo Verdone e Stefania Sandrelli nel ruolo di sé stessi), ma di veri amici neanche l’ombra. L’altro, l’oramai apprezzato Kim Rossi Stuart, è un carrozziere con la passione per le auto, meno bravo nel dialogare ma sostenuto dalla quintessenza dei valori famigliari. Impareranno tantissimo l’uno dall’altro. Tra sorrisi, lacrime e riflessioni sul senso della vita si inizia sulle note del dramma comico per giungere tra le pieghe abissali della commedia drammatica; come ci ritroveremo tutti un giorno dinanzi alla morte? Questa è la domanda. Voto – 7.5.
martedì 3 novembre 2009
Fortapasc (Marco Risi, 2009)
Dopo Biutiful Cauntri (2007), documentario shock sullo “stoccaggio” dei rifiuti tossici in Campania, ancora un titolo “partenopeizzato” che suona come un epitaffio. “Non siamo a Fort Apache” – grida il sindaco di Torre Annunziata dopo l’ennesima strage di camorra. Di certo lo era Giancarlo Siani (Libero De Rienzo), cronista “abusivo” per Il Mattino, che il 23 settembre 1985 fu ucciso dai sicari della camorra mentre era di ritorno a casa a bordo della sua Citroen Mehari. Un’auto verde quasi da safari, dal tetto scoperto; un paradosso per chi corre tra la vita e la morte. Siani, morto a 26 anni, aveva ficcato il naso in faccende bollenti rischiando di scottarsi. Più che infastidire i vertici della camorra aveva osato scuotere i Palazzi: appalti sospetti, alleanze collaterali, carabinieri inermi e una gragnola di omicidi. Marco Risi (figlio di Dino, a cui il film è dedicato) ci restituisce l’immagine fragile di un ragazzo (in)cosciente delle proprie azioni, scomodo. Alla Peppino Impastato. In quel caso a storcere il naso erano I Badalamenti, qui sono i Gionta, i Bardellino e i Nuvoletta. Un po’ troppo per un giovane neanche trentenne, dal volto pulito. La camorra vive di sfarzi, di riti plateali, di enfatiche tradizioni mentre il popolo ascolta, adora, idolatra e marcisce dentro. E Siani lottava contro il silenzio, spinto da una matta voglia di raccontare, forse inconsapevole del senso intrinseco dei propri gesti. Il capo (Ernesto Mahieux) l’aveva avvertito :”Tu devi parlare di cronaca nera, non di camorra”.
Marco Risi compie un lavoro onesto sfoggiando un certo (ab)uso del flash forward (montaggi alternati tra due scene che si svolgono in luoghi e tempi diversi – vedere l’inizio di 36 Quai des Orfevres per capire) e dando il meglio di sé nella riproposizione della strage di Sant’ Alessandro (26 agosto 1984) quando un gruppo di killer, assiepato in un autobus, falcidiò il clan dei Gionta uccidendo 8 uomini. Dinanzi a film del genere è sempre difficile attribuire un giudizio disincantato. L’eroe che combatte contro i mulini a vento è il valore aggiunto di qualsiasi ritratto epico e congelare le emozioni risulta impossibile. Servirà tutto ciò a scuotere le coscienze? Io dico di no. Ma il cinema non ha l’obbligo di lasciare un messaggio. Il cinema va amato per quello che è. Voto 8.
domenica 1 novembre 2009
Notorious B.I.G. (George Tillman Jr., 2009)
Vita, morte e “miracoli” discografici di Christopher Wallace, in arte Notorious B.I.G., ucciso a sangue freddo la notte del 9 marzo 1997 all’uscita da una festa tenutasi in un locale di Los Angeles. Il rapper, amico di Sean “Puff Daddy” Cumbs, fu solo una delle celebri vittime della faida tra East e West Coast, che negli anni ’90 si contendevano la paternità del rap. L’altro grande caduto della guerra tra “ideologie” musicali porta il nome di Tupac Shakur, anch’esso assassinato a bruciapelo poco tempo prima del collega Notorious. George Tillman Jr., prendendo in prestito i paradigmi classici del genere, con l’oramai strausato plot circolare (l’incipit corrisponde al finale), cerca di far luce proprio sull’amicizia tra Christopher Wallace e Tupac Shakur, spezzata probabilmente da un pestaggio ai danni di quest’ultimo ordinato da chi voleva aizzare la rivalità tra i due. Il mistero resta comunque. Da contorno una carriera criminale da enfant prodige: sesso, spaccio di droga e rap freestyle scostano l’obiettivo dal ritratto agiografico. Il Gangsta’s Paradise cantato da Coolio non è poi così lontano. Penalizzati dal doppiaggio ma senz’altro bravi gli attori; Jamal Woolard incredibilmente somigliante al protagonista, Derek Luke nel ruolo scomodo di Puff Daddy (ora Diddy) e Angela Bassett che dà vita alla madre di Wallace, vera vittima della vicenda e co-produttrice del film. Puff Daddy ricordò Notorious B.I.G. con la bellissima I’ll be missing you, rivisitazione R&B di un capolavoro dei Police, Every breath you take. Voto 6.
domenica 25 ottobre 2009
La notte non aspetta (David Ayer, 2008)
Storie di distintivi bagnati nel sangue. Per servire e proteggere. E in questo caso voglio proteggere voi spettatori. Non fatevi ingannare dal titolo, la notte può aspettare, soprattutto se in mezzo ad una storia ricca di topoi (detective corrotti, complotti abominevoli e bande latine) manca il cuore. I Padroni della notte - quello si che era un film - un sudicio viaggio nel mondo suburbano della giustizia “malavitosa”, al confronto è un capolavoro (no che non lo sia). David Ayer, aiutato in fase di sceneggiatura da James Ellroy (come rovinarsi una carriera), muove la macchina da presa con la stessa inutilità di un cappotto ai Caraibi. Il cast sarebbe anche promettente, ma l’illusione è rapida quanto il battito d’ali di un colibrì: Keanu Reeves sembra chiedersi “chi cavolo me l’ha fatto fare”, Forest Whitaker (L’ultimo re di Scozia) è sprecato in un ruolo alquanto convenzionale e Hugh Laurie sfoggia tutti i suoi vezzi doctorhousiani. Il film sbraita in un ping pong di tradimenti annunciati cercando invano di non affondare e culminando in una sorta di redenzione evangelica, ma quando la pelle non si accappona allora qualcosa non va. Forse al termine anche voi esclamerete “Chi cavolo me l’ha fatto fare”. Voto – 4.5.
lunedì 12 ottobre 2009
Unbreakable (M. Night Shyamalan, 2000)
A poche settimane dall’assorbimento della Marvel per conto della Walt Disney è quanto mai sensato parlare di fumetti. Le due grandi “case” concorrenti sono note ai più: la Dc Comics (Batman) e appunto la Marvel (Superman, Spiderman, X-Men, ecc.). Il nuovo millennio ha partorito una miriade di film sul genere(prequel, sequel, spin-off), e in cantiere ne risultano altrettanti, cavalcando la recente brama generazionale in cerca di eroi; alcuni hanno colto il bersaglio (gli ultimi Batman di Christopher Nolan e i primi due capitoli X-Men), altri hanno toppato alla grande (Daredevil, The Spirit, Catwoman, Superman returns) e in mezzo ci sono quei film come Spiderman che a parer mio si travestono abilmente da capolavori quali non sono. Tra l’accozzaglia pochi hanno mostrato cosa si nasconda dietro un eroe, chi o cosa lo renda tale. La propria genesi non può limitarsi a una puntura d’insetto o una mutazione radioattiva. Batman begins ne è stata la conferma; chi era Bruce Wayne prima di diventare l’uomo pipistrello? Ma l’opera che più di tutte ha saputo raccontare la genesi di un superuomo, paradossalmente, non è tratta da alcun fumetto; Unbreakable, a un anno di distanza dall’incredibile e meritato successo di The Sixth Sense, narra le gesta di David Dunn (Bruce Willis), addetto alla sicurezza allo stadio di Filadelfia, che risulta essere l’unico superstite di un tragico disastro ferroviario. Impossibile capire come sia possibile che sulla sua pelle non ci sia alcun graffio. In suo “soccorso” arriverà un ambiguo collezionista di fumetti, Elijah Price (Samuel L. Jackson), un uomo fisicamente fragile a causa di una rara malattia, e per l’appunto considerato “dalle ossa di cristallo”. I loro destini si incroceranno indissolubilmente a svelare la natura etica e il significato ultimo dei due outcast. M. Night Shyamalan, non a caso tra i miei registi preferiti, ha una dote banale ma essenziale: scavare tra le pieghe dell’animo umano senza mai adoperare soluzioni facili, anche il silenzio diviene veicolo di narrazione ultraterrena. Il colpo di scena finale (marchio di fabbrica) è stupendo. Unbreakable è stato ampiamente sottovalutato e paga quello scetticismo che dagli esordi aleggia nei confronti del cineasta indiano, tramutatosi ingiustamente in indifferenza dopo The Village, Signs e Lady in the water e commutato in esiguo rispetto dopo il recente E venne il giorno. M. Night Shyamalan a causa del suo cinema dai temi estremi non ha mezze misure: o lo si odia o lo si ama. Io consiglio a tutti di ripescare Unbreakable almeno per trovare una nuova chiave di lettura su un genere che ultimamente sembra stia sfornando un “attacco dei cloni” con tanti fumettoni che si passano il testimone in un eterno e sbiadito refrain. Voto: 9.
domenica 11 ottobre 2009
Il trittico all’italiana
In barba a chi sostiene che il cinema italiano sia in crisi vi propongo tre film d’autore:
Il papà di Giovanna (Pupi Avati, 2008): Pupi Avati è sinonimo di garanzia. Raramente chi sceglie il regista bolognese resta deluso. Vedere La seconda notte di nozze per credere perché Il papà di Giovanna è sulla stessa lunghezza d’onda. Sullo sfondo dei primi sfaceli razziali del fascismo osserviamo il rapporto doloroso tra Michele (Silvio Orlando), padre premuroso e insegnante di liceo, e la figlia Giovanna, ragazza dal dark side quanto mai esplicito. Un giorno, che cambierà la storia di entrambi, Giovanna uccide per gelosia la sua migliore amica. Di qui ha inizio il viaggio tra i meandri oscuri dell’animo umano: mentre il mondo intorno implode rovinosamente, l’amore per una figlia vive al di fuori di qualsivoglia dimensione spazio-temporale. Chapeau. Voto 9.
La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007): in un paesino desolato dalle ossidate gerarchie arriva una giovane ed avvenente insegnante che attira suo malgrado le attenzioni dell’intera comunità. In molti ci proveranno con lei: chi in modo viscido, chi riesumando i “fasti” del romanticismo. A spuntarla sarà un meccanico extracomunitario. Poi un giorno il sogno si spezza: il corpo senza vita della ragazza viene ritrovato sulle sponde del lago. Inutile sottolineare su chi cadano le colpe. Fil rouge dell’intera storia è un giornalista in erba, non di certo un eroe tout court, dato che scartabella tra le e-mail della protagonista, ma con il pregio di sbrigliare abilmente (anche se purtroppo in ritardo) la matassa, salvando la memoria di chi ha pagato a caro prezzo le conseguenze di una società arcaica. Altro che il sopravvalutatissimo La ragazza del lago. Voto 7.5.
Il pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008): supportato in fase di distribuzione da Matteo Garrone (regista di Gomorra), Il pranzo di ferragosto è quasi un instant movie ambientato tra il 14 ed il 15 agosto: il protagonista è un uomo di mezz’età che vive in compagnia della sua anziana mamma, fin quando un giorno per una serie di coincidenze si ritrova a dover ospitare altre 3 vetuste signore (abbandonate momentaneamente dai parenti vacanzieri).Dinanzi ai nostri occhi si presenta una galleria degli orrori; dalla mamma che appare come una mummia in cerca dell’eterna giovinezza alla “rimbambita” ostinata a ripetere sempre le stesse passando per la “libertina” a caccia di divertimento. Non è riduttivo parlare di freak-show (e il cast, senza grandi nomi, è comunque stratosferico). Si sorride e si scherza sul tema dell’anzianità e sull’accezione di maturità: il trascorrere degli anni ci aiuta a crescere o a tornare bambini? Voto 8.
Il papà di Giovanna (Pupi Avati, 2008): Pupi Avati è sinonimo di garanzia. Raramente chi sceglie il regista bolognese resta deluso. Vedere La seconda notte di nozze per credere perché Il papà di Giovanna è sulla stessa lunghezza d’onda. Sullo sfondo dei primi sfaceli razziali del fascismo osserviamo il rapporto doloroso tra Michele (Silvio Orlando), padre premuroso e insegnante di liceo, e la figlia Giovanna, ragazza dal dark side quanto mai esplicito. Un giorno, che cambierà la storia di entrambi, Giovanna uccide per gelosia la sua migliore amica. Di qui ha inizio il viaggio tra i meandri oscuri dell’animo umano: mentre il mondo intorno implode rovinosamente, l’amore per una figlia vive al di fuori di qualsivoglia dimensione spazio-temporale. Chapeau. Voto 9.
La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007): in un paesino desolato dalle ossidate gerarchie arriva una giovane ed avvenente insegnante che attira suo malgrado le attenzioni dell’intera comunità. In molti ci proveranno con lei: chi in modo viscido, chi riesumando i “fasti” del romanticismo. A spuntarla sarà un meccanico extracomunitario. Poi un giorno il sogno si spezza: il corpo senza vita della ragazza viene ritrovato sulle sponde del lago. Inutile sottolineare su chi cadano le colpe. Fil rouge dell’intera storia è un giornalista in erba, non di certo un eroe tout court, dato che scartabella tra le e-mail della protagonista, ma con il pregio di sbrigliare abilmente (anche se purtroppo in ritardo) la matassa, salvando la memoria di chi ha pagato a caro prezzo le conseguenze di una società arcaica. Altro che il sopravvalutatissimo La ragazza del lago. Voto 7.5.
Il pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008): supportato in fase di distribuzione da Matteo Garrone (regista di Gomorra), Il pranzo di ferragosto è quasi un instant movie ambientato tra il 14 ed il 15 agosto: il protagonista è un uomo di mezz’età che vive in compagnia della sua anziana mamma, fin quando un giorno per una serie di coincidenze si ritrova a dover ospitare altre 3 vetuste signore (abbandonate momentaneamente dai parenti vacanzieri).Dinanzi ai nostri occhi si presenta una galleria degli orrori; dalla mamma che appare come una mummia in cerca dell’eterna giovinezza alla “rimbambita” ostinata a ripetere sempre le stesse passando per la “libertina” a caccia di divertimento. Non è riduttivo parlare di freak-show (e il cast, senza grandi nomi, è comunque stratosferico). Si sorride e si scherza sul tema dell’anzianità e sull’accezione di maturità: il trascorrere degli anni ci aiuta a crescere o a tornare bambini? Voto 8.
mercoledì 30 settembre 2009
Doomsday (Neil Marshall, 2008)
Ennesimo esempio a parer mio di prodotto fortemente sopravvalutato. Lessi mesi fa svariate recensioni positive a riguardo, che oltre a parlare di ottimo film tendevano a confermare le doti narrative di Neil Marshall, apprezzato regista (e qui concordo) di The descent – Discesa nelle tenebre, tra i pochi horror salvabili del nuovo millennio. La trama, in un periodo in cui la suinomania impazza, calza a pennello: in seguito al diffondersi di un’epidemia assassina, la Scozia, a seguito della costruzione di un’enorme barriera, viene separata dal resto dell’isola britannica. Dopo trent’anni il virus però torna a mieter vittima a Londra e i “vertici” decidono di organizzare una spedizione che possa recuperare, tra gli anfratti della regione scozzese, qualche sopravvissuto sano a tutti gli effetti, al fine di ricavarne un antidoto. Il canovaccio tutto sommato non è male e l’incipit catastrofico, che ha qualcosa da spartire con Io sono leggenda, è notevole. Trascorsi i primi 20 minuti benauguranti, Doomsday si tramuta improvvisamente in un accozzaglia di topoi cinematografici. C’è di tutto, davvero di tutto, ma nulla di originale: è presente la tribù di emarginati (1997: Fuga da New York) in stile punk-rock (Mad Max), la sfida nell’arena (Il gladiatore grida vendetta) e la colonna sonora, e non solo, sembra scopiazzata dallo score di 28 settimane dopo (che consiglio vivamente di ascoltare). Doomsday può forse piacere ai fan dell’action futuristico ma per i veri cinefili sarà difficile mandar giù gli innumerevoli rimandi ad altre opere senza dubbio migliori. Neil Marshall è un cineasta che sa comunque il fatto suo, muovendosi con padronanza dei mezzi e mostrando la sua passione per il genere femminile (interessante, ma in un ruolo stereotipato, Rhona Mitra), ancora una volta protagonista di un suo film. “Purtroppo” il finale sembra faccia presagire un sequel. Quando su Doomsday sono calati i titoli di coda ho sentito il repentino bisogno di disintossicarmi con 28 settimane dopo…m’è bastata anche una piccola scena.Voto 4.5.
sabato 26 settembre 2009
Zombi (Versione estesa di 137’, George A. Romero, 1978)
Ho recuperato in questi giorni la “celebre” versione estesa di Dawn of the Dead (da noi Zombi), di Romero, di cui avevo sentito parlare sfogliando il Mereghetti ma che non avevo mai avuto modo di reperire. In effetti di questo film esistono 3 edizioni: quella americana di 122’, quella estesa di 137’ e quella per il mercato europeo di 118’. Quest’ultima, che passa saltuariamente sulle nostre reti con tagli abominevoli (vedi Rete4), è stata affidata a Dario Argento, co-produttore per l’occasione e grande amico del regista, che ha usufruito del supporto dei Goblin per una colonna sonora, a parer mio, maestosamente angosciante. Nella versione estesa con grande delusione ho invece constatato che musica e sound sono del tutto fuori luogo lambendo a tratti il ridicolo e le scene epurate dall’edizione europea aggiungono ben poco al plot(a parte quella iniziale in cui i protagonisti si imbattono in un gruppo di soldati in fuga su una barca). Tutto sommato ripescare la versione di 137’ è un’operazione che spetta ai veri fan ma in fondo ne si può fare anche a meno. Parlare della trama è superfluo perché l’ultimo remake, L’alba dei morti viventi (Zack Snyder, 2004), ci ha rinfrescato licenziosamente le idee, ma non voglio perdere l’occasione di segnalare la presenza di Tom Savini (suoi gli effetti speciali) come attore nel ruolo del capo degli “sciacalli” motorizzati, e non smetterò mai di ribadire che Zombi è forse il miglior horror di tutti i tempi per l’esplicito attacco alla società dei consumi, sottolineato dal ritorno dei morti viventi “nei luoghi calpestati da vivi”, in questo caso un appariscente centro commerciale!!! Voto versione originale – 6. Voto versione mercato europeo – 10.
giovedì 24 settembre 2009
Vivere e morire a Los Angeles (William Friedkin, 1985)
Dal regista di L’esorcista, Vivere e morire a Los Angeles è un noir incredibilmente violento che si avvale della Città degli Angeli come sfondo lurido e desolato ad una storia di per sé altrettanto “degradata”. L’agente federale Chance (William L. Petersen) è sulle tracce del falsario Masters (Willem Dafoe) per vendicare la morte del suo anziano collega. Pur di mettere le mani sull’uomo oltrepassa la sottile linea che divide giustizia e criminalità arrivando a rubare dollari veri per acquistare una partita di soldi falsi. Il finale è un vero pugno nello stomaco che ribalta gli ossidati meccanismi del cinema contemporaneo, per il quale il protagonista raggiunge meritatamente la salvezza o muore in modo plateale e retorico. Gli inseguimenti, specie quelli “a piedi”, sono ben fatti e sorvolando l’interpretazione magistrale di Willem Dafoe sono rimasto particolarmente colpito dalla prova e dalla “fisicità” di William L. Petersen (che avevo già ammirato in Manhunter), antieroe tout court privo di qualsivoglia caratura etica e mosso soltanto da un sentimento: la vendetta. Voto 7.5.
mercoledì 23 settembre 2009
The Orphanage (Juan Antonio Bayona, 2007)
Da grande fan dell’horror quale sono mi sento in dovere di esprimere tutto il mio entusiasmo per l’opera prima di Juan Antonio Bayona, vincitore in patria (Spagna) di ben 7 premi Goya. Sotto la supervisione di Gulliermo del Toro, produttore per l’occasione, Bayona prende in prestito molti dei luoghi comuni dell’horror cosiddetto abitativo – un orfanotrofio infestato da fantasmi, la mamma a cui nessuno crede e un bambino con amici immaginari al seguito – e crea una favola gotica, che rimanda indubbiamente ai canovacci di stampo orientale con pargoletti ululanti in cerca d’affetto e protezione. La trama è sostanzialmente banale ma Bayona gira con enorme sapienza senza mai cadere in pause didascaliche e alzando il ritmo nelle fasi finali. The Orphanage ha più di qualche affinità con The Others, soprattutto per l’ambientazione casalinga, ma ha nella figura materna un inequivocabile punto di tangenza con Dark Water. Tirando le somme non nascondo il pizzico di pelle d’oca provato nell’attimo “congiungente” finale (un altro punto in comune con Dark Water) con tanto di occhi lucidi, e costatando che versare una lacrima (non d’angoscia) al cospetto dell’iconografia horror è pressoché impossibile, al termine della visione di The Orphanage mi rendo conto di aver davvero per 100 minuti circa spento il mondo intorno a me per sentire sulla pelle il freddo respiro dei fantasmi. Voto 8.
lunedì 24 agosto 2009
Il serpente e l'arcobaleno (Wes Craven, 1988)
Senza dubbio il miglior film di Wes Craven (creatore delle saghe di Nightmare e Scream). A sorprendere è l’elaborazione del concetto di paura, scoperchiato alla radice, che nonostante viva di pochi momenti esplicitamente horror è sviluppato in modo del tutto originale. Il serpente e l’arcobaleno è grossolanamente considerato come un film sugli zombi (è sostanzialmente un horror d’ambientazione), ma è lontano parente dei prodotti di George A. Romero. Wes Craven si rifà all’esoterismo che gira intorno alla leggenda degli zombi, allacciandosi alla prima idea che aveva prodotto il cinema sui cosiddetti morti viventi (vedi Ho camminato con uno zombie, 1943 e White Zombie del 1932): gli zombi sono l’ultimo step di un processo di annientamento umano praticato tramite l’uso della magia nera. Ed è proprio questo che l’antropologo (Bill Pullman), protagonista del film, cerca di scoprire partendo per Haiti ed imbattendosi nelle “psichedeliche” tradizioni locali. Il suo diviene immediatamente un allucinato viaggio negli inferi dove la realtà cede il passo ad una condizione mentale prossima all’esaurimento nervoso. Il sottomessaggio che ci lascia Wes Craven è puramente politico perché l’utilità della suddetta pratica vudù è presto svelata: il regime monarchico dei tonton macoute (sotto la supervisione del tiranno Francoise “Papa Doc” Duvalier) riduce ad uno stato vegetale chi si frappone sul suo cammino, attuando una vera e propria strategia del terrore. Dopo aver visto questo film è strano associarlo a Wes Craven, perché del tutto privo della consueta ironia adoperata in altri lavori come Scream, Nightmare e La casa nera. Purtroppo gli ultimi prodotti del regista sono inequivocabilmente scandalosi (Red Eye, 2005 e Cursed – Il maleficio, 2005), segnale di una carriera da lui stesso distrutta con l’inizio della saga di Scream (considerato come simpatica presa in giro dei luoghi comuni dell’horror ma secondo me null’altro è che una cagata) ed è appunto doveroso ripescare questo piccolo capolavoro, al fine di riesumare la chiave che si nasconde dietro qualsivoglia opera horror: la paura. Voto 7,5.
venerdì 14 agosto 2009
Colazione da Tiffany (Blake Edwards, 1961)
Tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote e girato da Blake Edwards (La pantera rosa, Hollywood party), Colazione da Tiffany era stato inizialmente pensato per Marilyn Monroe. Oggi l’idea ci fa rabbrividire. Essendo passato alla storia per l’incantevole connubio tra eleganze e stile, incorporati da Audrey Hepburn, pensare a Marilyn Monroe nei panni di Holly Golightly appare assurdo. La differenza fisica è notevole, lo charme non è affatto comparabile eppure bisogna ammettere che Marilyn (regina della commedia sofisticata) nei panni della ragazza affascinata dal dio-denaro non avrebbe impallidito al confronto. Ma soltanto Audrey poteva restituire al personaggio la confusione lacerante e la fragilità sommessa di chi insegue il sogno di una vita agiata, illudendosi di poter trovare così la felicità. E’ ciò che succede in fondo quando ci ritroviamo a criticare chi sceglie un Ricucci o un Briatore come compagno, e farsene una ragione è alquanto difficile. Holly si definisce una ragazza libera che nessun nome o sentimento potrà imprigionare ma, come le dice Paul (George Peppard), scrittore di discutibile successo ed innamorato di Holly, “resterai per sempre in gabbia anche quando fuggirai perché prima o poi ti imbatterai di nuovo in te stessa”. Edwards mette alla berlina i vizi ed i vezzi dell’alta società ed il party scatenato che si tiene a casa di Holly ne è la conferma: una donna totalmente ubriaca si fissa allo specchio ridendo come una matta, dopo pochi secondi la ritroviamo nello stesso luogo ma in totale depressione, il tutto a testimoniare esplicitamente che i soldi non fanno la felicità. Colazione da Tiffany è una galleria immortale di scene memorabili; su tutte la Hepburn che canta Moon River (di Henry Mancini) e la sosta all’alba dinanzi alle vetrine di Tiffany. Oggi il volto della Hepburn è ovunque; sulle borse, nei negozi, nella mia stanzetta e lì dove ci sia da usare un sinonimo di eleganza. Il suo sguardo resta inimitabile. Il suo sorriso è il mio intimo rifugio. Voto 8.
lunedì 10 agosto 2009
Cover boy. L’ultima rivoluzione (Carmine Amoroso, 2007)
Frutto di un efficace passaparola, chiave del successo di un altro film d’autore come Il vento fa il suo giro (2007), Cover boy ha affrontato decine di festival prima di trovare la tanto attesa distribuzione nelle sale, ed osservando il prodotto finito mi appare inconcepibile condividere tale paradosso. La storia, quanto mai vicina al processo di interscambio culturale coatto tra italiani ed immigrati in cerca di gloria, parla di un’amicizia sincera tra un romeno, Ioan (Eduard Gabia), appena giunto nello Stivale ed un romano “per usucapione”, Michele (Luca Lionello), trasferitosi dall’Abruzzo a Roma per ritrovarsi a lavorare come addetto alle pulizie nella Stazione Termini. Insieme coltivano il sogno di aprire un ristorante in Romania, ma le strade ben presto si dividono: Michele, silurato dalle falle devastanti del precariato, scopre il sapore di una vita umiliante mentre Ioan, adocchiato da una fotografa (Chiara Caselli), arriva a Torino per intraprendere la carriera da modello. Nell’attimo in cui si separano (la scena è stupenda e struggente) sappiamo che non si rincontreranno mai più, se non in un’onirica illusione. Parlare di un’opera intima è senza dubbio adeguato perché l’Italia dei precari e dei sogni infranti è la nostra Italia; “Se non hai qualcuno che ti aiuta sei uno straniero in patria” dice Michele con lapalissiano riferimento alla gerarchia delle raccomandazioni, cancro incurabile della nostra società. La sequenza finale è una piccola concessione retorica, non banale, ma utile per tenere fuori dalla nostra portata la dimensione della tragedia. Voto 8,5.
venerdì 7 agosto 2009
Un americano a Roma (Steno, 1954)
Uno dei capolavori della farsa tricolore, antecedente la Commedia all’italiana degli anni ’60, Un americano a Roma è il quadro espositivo della tendenza imitativa del vecchio continente nei confronti del mondo “immaginifico” degli Stati Uniti d’America. Il protagonista, Nando Moriconi (Alberto Sordi), nonostante romano fino al midollo, si sente a tutti gli effetti un cittadino del Kansas City, si ostina a mangiare marmellata, mostarda, pane e latte a cena, rinnegando (pentendosene repentinamente) il tradizionale piatto di maccheroni (“Tu mi hai provocato ed io te distruggo!”), va al cinema a vedere soltanto film hollywoodiani, si veste con dei jeans d’oltreoceano e blatera un americano raffazzonato (totalmente inesplicabile) farcito da una vagonata di “Wazzgherà”. Nel nome del conformismo americano Nando (ma lui sogna di trasformarsi in Santi Byron), arriva addirittura a minacciare il suicidio pur di giungere negli States. Il film risulta, dalla seconda metà, eccessivamente frammentario riducendosi ad una serie di sketch dove spicca il talento istrionico dell’Albertone nazionale. L’ultima “gag” è divertentissima con l’irruzione in diretta di Nando, nudo, all’interno di una trasmissione televisiva. Le critiche al conformismo sono esplicite ed evidenziano la necessità di ritrovare una propria identità al di fuori dei nostri confini. Ma il concetto è in realtà illusorio: gli stessi americani non comprendono il linguaggio di Nando, i maccheroni rivestono in ogni caso la cena perfetta ed il distributore d’acqua, classico dell’ufficio americano (come spiega alla madre), eroga un liquido che fa letteralmente schifo. Alla stesura della sceneggiatura oltre a Steno (Stefano Vanzina) hanno partecipato anche Alessandro Continenza, Ettore Scola, lo stesso Sordi e udite, udite, Lucio Fulci. Voto:7
mercoledì 29 luglio 2009
James McAvoy: L'ultimo re di Scozia
James Andrews McAvoy, nato a Port Glasgow il 21 aprile 1979, è senza dubbio uno degli attori scozzesi più duttili ed interessanti visti negli ultimi anni. Laureatosi presso la Royal Scottish Academy of Music and Drama, come tutti gli attori britannici ha coltivato la passione per la recitazione passando prima per i palcoscenici teatrali. A 16 anni debutta al cinema in The Near Room (David Hayman, 1995). Appare nel 2001 nel discutibile horror tedesco The Pool, poi nel 2004 interpreta, in Wimbledon, un ciclista scavezzacollo con tanto di cappellino della Mercatone Uno. Il primo ruolo a regalargli il meritato salto di qualità è quello del fauno Tumnus in Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio (Andrew Adamson, 2005) dove, anche se abilmente truccato, conserva il suo sguardo vivido e calamitante. Nel 2006 Kevin MacDonald gli affida il ruolo tormentato del medico ufficiale di Idi Amin Dada (il tiranno ugandese), in L'ultimo re di Scozia, e McAvoy lo ripaga pienamente. La prova dell’attore, che non sfigura al cospetto di Forest Withaker, è strepitosa e gli vale un BAFTA come rivelazione dell’anno. La consacrazione arriva con Espiazione (Joe Wright, 2007) tratto dal geniale e “minuzioso” capolavoro di Ian McEwan, al fianco della già affermata Keira Knightley, in cui la divisa, da soldato voglioso di tornare dall’amata, gli calza a pennello. Il film è di per sé l’incrocio ideale tra kolossal e film d’autore avvalendosi di una geniale sceneggiatura, degna dell’omonimo libro. Nello stesso anno esce nelle sale Becoming Jane – Il ritratto di una donna contro, semibiografia dell’autrice Jane Austen. Quest’ultima dopo aver rifiutato la corte del ricco aristocratico Sir Wisley si innamora di James McAvoy, nella parte di uno spigliato irlandese. Il dramma in costume sembra addirsi all’attore scozzese ma l’anno successivo l’action piomba a piè pari nella sua carriera. In Wanted – Scegli il tuo destino, coadiuvata da Angelina Jolie, veste i panni di un killer figlio d’arte. Il film è un fiasco ed è effettivamente inguardabile, rappresentando un grosso passo falso per James McAvoy. Ciò non può comunque inficiare sul gran lavoro svolto fin ad allora ed in attesa di rivederlo presto in The Last Station rinnovo i miei elogi a questo ragazzo dalle umili origini (padre muratore), dal futuro promettente e tifosissimo della squadra di stampo cattolico dei Celtic Glasgow.
martedì 28 luglio 2009
Ultimo film visto: Zombi 2
Primo horror a tutti gli effetti di Lucio Fulci, Zombi 2 (1979) non è affatto il sequel di Zombi (George A. Romero, 1978) come può far presagire la “desinenza” numerica; in America è altresì conosciuto col nome di Zombi Flesh Eaters (Zombi mangiatori di carne). Ambientato in gran parte su un’isola delle Antille, l’opera coniuga i temi romeriani (il contagio imminente, e l’epidemia metropolitana) con quelli classici su cui si basano le credenze vudù: lo zombie null’altro è che lo step finale di un processo di annientamento dell’animo umano, attuato tramite l’uso della magia nera e sviluppatosi, secondo le usanze, in alcune tribù dell’Africa occidentale. I vecchi horror trattanti questo genere erano legati appunto ai suddetti canoni (Ho camminato con uno zombie, 1943), poi l’arrivo di Romero ha sconquassato le dinamiche. Sull’isola di Tamul i morti tornano quindi in vita, lenti e impacciati, alla ricerca di carne fresca, mentre un dottore cerca invano di capire cosa ci sia alla base di tali avvenimenti. Intanto giungono sul luogo un giornalista donnaiolo ed una donna alla ricerca del padre scomparso. I ritmi sono dilatati e gli effetti speciali sostanzialmente ottimi, manca l’analisi introspettiva dei personaggi ma i morti viventi non sono così distanti, per angoscia indotta, dai living dead più famosi. Il finale cela una sorpresa di indiscutibile fascino. Voto: 7.
sabato 25 luglio 2009
Il favoloso mondo di Jean-Pierre Jeunet
Straordinariamente sopra le righe per il suo stile colorato e vivido il regista francese è famoso ai più grazie al successo planetario di Il favoloso mondo di Amelie (2001), storia di una ragazza “speciale” (Audrey Tatou è magica) che nel giorno della morte di Lady Diana ritrova un vecchio cofanetto, zeppo di ricordi, nascosto da un bambino 30 anni prima. Alla ricerca del bambino, ormai adulto, si veste di una missione quasi gesuitica: occuparsi della felicità altrui. Parte di una galleria di personaggi realisticamente assurdi (un venditore imbranato, un pittore dalle ossa di cristallo, una donna con la sindrome di Munchausen, uno scrittore fallito e tanti altri) Amelie Poulain per regalare (anche con escamotage fittizi) gioie a chi la circonda mette in disparte la propria felicità, accorgendosene soltanto quando il suo cuore comincia a battere per uno strano ragazzo “speciale” (con la fissazione delle fototessere) quanto lei. Il film è un pout-pourri di soluzioni visive dove la vita è una drammatica favola in bianco e nero, i pesciolini soffrono di stress, i nani viaggiano per il mondo ed i suppellettili si improvvisano consiglieri. Jean-Pierre Jeunet è un genio nel rendere incantevole anche le piccole cose, restituendo una dimensione visiva a quelle fantasie che albeggiano in ognuno di noi (la scena in cui Amelie si rivede in televisione come missionaria infelice è stupenda) evitando eccessi nello stucchevole. Le musiche di Yann Tiersen accompagnano in modo egregio le vicissitudini della protagonista. Da sottolineare l’iniziale formula del “A me piace…a me non piace”, modello adoperato dal cineasta già nel precedente corto Foutaises interpretato dall’attore unico Dominique Pinon, presente tra l’altro in tutti i film di Jeunet. Da ripescare assolutamente Delicatessen (1990) e La città perduta (1995) diretti con Marc Caro in cui il clima non è affatto fatato e regna un cinismo ombrato di fondo dove ad emergere è il dark side insito in tutti i personaggi, anche i bambini. Anche nelle suddette opere le trovate sono infinite e sembrano ripescate da un qualsivoglia libro di Daniel Pennac (infatti il mio sogno più recondito è una collaborazione tra i due). Jeunet ha inoltre diretto Alien – La clonazione (1997) terzo capitolo della saga conservando il registro stilistico ed inalberandosi in una lettura bio(gen)etica della clonazione. Ultima fatica del regista in ordine di tempo, Una lunga domenica di passioni (2004) giova di mezzi economici esorbitanti dovuti agli introiti di Il favoloso mondo di Amelie. Risulta un po’ appesantito dalla durata ma chi cerca il solito Jeunet si ritrova appagato. Tirando le somme Jeunet dimostra le capacità del cinema francese ed involontariamente denota le carenze di quello italiano, dedito esclusivamente al dramma familiare ed al bypassabile cinepanettone. La mentalità transalpina è avanti anni luce e ciò è confermato anche dal boom del genere horror grazie ai vari Xavier Gens e Alexandre Aja. E’ ora per l’Italia di svegliarsi sulla scia dei cugini d’Oltralpe, abbiamo bisogno di sognare e terrorizzarci quanto loro. Forse siamo i veri re del melò inter-nos ma ci manca una visione a 360° del cinema. La colpa non è senza dubbio dei registi ma di tutte le istituzioni che snobbano il reale valore della settima arte, parlando di crisi e di risparmio e penalizzando consapevolmente il cinema.
venerdì 24 luglio 2009
Ultimo film visto: Il ritorno dei morti viventi 2
A 10 anni di distanza da Zombi (George A. Romero, 1978) il semi sconosciuto Ken Wiederhorn (Meatballs II) va ad incastrarsi con un ipotetico secondo capitolo tra i colleghi Dan O’Bannon (Il ritorno dei morti viventi, 1985) e Brian Yuzna (Il ritorno dei morti viventi 3, 1993) a suggellare una trilogia che avrebbe dovuto restituire linfa al genere creato (parzialmente) da Romero con il rivoluzionario La notte dei morti viventi (1968). Le ambizioni non sono certamente stellari, la critica sociale resta ai margini ed i dialoghi sono tirati al minimo sindacale. Ma a far sorridere è l’uso patinato dell’ironia tra riferimenti palesi al video musicale Thriller del compianto Michael Jackson e zombi che furbescamente cercano di procacciarsi via radio cervelletti da assaporare. La trama è semplice: un badile carico di gas tossici è aperto sciaguratamente da alcuni ragazzi che involontariamente scatenano un’epidemia all’interno del cimitero vicino nel quale un giovane ed un “vissuto” (ma in realtà fifone) signore amputano teschi a scopo di lucro. In men che non si dica i morti tornano in vita accampando pretese culinarie specifiche perché a differenza dei living dead romeriani essi si cibano solo di cervello e non di carne umana in generale. I due sciacalli e la fidanzata del ragazzo si imbattono in un altro trio composto da una ragazza, il fratellino (tra i colpevoli della pandemia) ed un giovane antennista. Tutti insieme cercheranno di lasciare la città, ma l’idiozia militare impedisce loro di attraversare il ponte che conduce fuori città. Nel frattempo i due profanatori di tombe iniziano ad accusare sintomi zombeschi dopo aver inalato il gas tossico. I due nuclei si separano e l’antennista decide di risolvere il tutto adoperando l’arte del mestiere: l’elettricità. All’interno del film sono presenti svariate contraddizioni interne (gli zombi prima sono lentissimi poi hanno improvvisi scatti da sprinter) ed esterne (in questo caso resuscitano anche i morti di vecchia data a differenza delle opere Romeriane) ma gli effettacci gore sono riusciti e divertenti. Da segnalare la presenza dell’attore Dana Ashbrook (nel ruolo dell’antennista) che due anni dopo farà parte del serial Twin Peaks come studente scavezzacollo. Voto 6,5.
Io senza cinema non so stare
Il blog Iosenzacinemanonsostare nasce dall’urgenza di condividere quest’ancestrale passione con tutti gli utenti “disposti” ad ascoltare i deliri di un giovanotto cresciuto a pane e cinema. Ciò che più conta per me è interagire con gli utenti, assorbire le considerazioni di tutti voi su film in uscita, capolavori del passato, piccoli cult dimenticati senza tralasciare piccole schede su attori e registi emergenti o affermati. Insieme possiamo dar vita ad un blog succulento e stimolante edificando una nostra piccola dimensione tenendo fuori dalla sfera cinematografica “faccende” che non ci interessano. Il mio appello è per tutti voi adepti del cinema, quindi non mancate all’appello, scrivete tutto quello che vi pare nei limiti del decoro, e cercando di essere costruttivi. Il cinema ha bisogno di voi… grazie…fugadimezzanotte
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