lunedì 27 dicembre 2010

L’Esorcista: La genesi (Renny Harlin, 2004)



Cast: Stellan Skarsgard, Izabella Scorupco, James D’Arcy, Ben Cross
Genere: Horror demoniaco
Durata: 114’ minuti al cospetto di 2 palle così
Paese: Usa
Titolo originale: Exorcist: The Beginning

1949: Padre Lankester Merrin, sconvolto dagli episodi vissuti durante l’occupazione nazista - a seguito dei quali ha smarrito la fede - , è in Africa per sconfiggere il demone Pazuzu, sguinzagliato sciaguratamente da alcuni archeologi, “rei” d’aver scoperto una misteriosa Chiesa costruita nel punto in cui Lucifero precipitò per mano del Signore. Merrin (ri)troverà la fede e un’affascinante donna che in seconda battuta sembrerà saperne una più del Diavolo. E’ così triste, deprimente, aberrante dover per forza di cose paragonare questo ignobile prequel al suo padre putativo, “il film di paura” del ventunesimo secolo, L’esorcista. Quest’ultimo di rara potenza visiva e narrativa è ancora oggi considerato da buona parte dei cinefili il miglior horror di tutti i tempi. Come dargli torto? L’esorcista: La genesi è al contrario la morte del cinema di genere, a cominciare da una trama che dovrebbe tenerci inchiodati alla poltrona e che viceversa ci lascia liberi di passeggiare per casa alla ricerca di un qualcosa di più spaventoso, tipo una foto della suocera o la tassa sulla spazzatura. Meglio non parlare degli effetti digitali; buttati lì a casaccio con l’intento di spaventarci e che paradossalmente ci fanno venir voglia di rivedere “pietre miliari” come Twilight e New Moon i cui lupi computerizzati a confronto paiono terribilmente realistici. Nel frattempo andrebbe immediatamente aperto un dossier per la performance di parte del cast. Gli attori sono stati drogati o cosa?? Izabella Scorupco è stupenda, ma (suo malgrado) ridicola nei panni logori della posseduta. Stellan Skarsgard è un attore alquanto stimato eppure qui si rende artefice di un’interpretazione priva di qualsiasi spessore caratteriale; un uomo che per 110 minuti vorrebbe fare l’Indiana Jones, e che invece conserva l’espressione di chi ha appena scoperto di essersi cagato sotto, riesce a convincerci che colleghi come Nicolas Vaporidis e Kiefer Sutherland non sono soli in questo mondo. L’unica scusante a sostengo di tale naufragio è la tribolata questione produttiva legata ad alcune scelte infelici; il film era stato inizialmente affidato a John Frankenheimer per poi passare nelle mani di Paul Schrader. Alla fine l’incauto compito è stato assegnato a Renny Herlin, ritrovatosi con in mano un pasticciato guazzabuglio, che ha aggiunto altro ciarpame tradendo la sue radici action nelle scene in cui decide di lasciar svolazzare la telecamera al di sopra dei suoi attori, dimenticando che il vero cinema horror non è quello muscolare e adrenalinico girato alla Michael Bay bensì quello inquietante e profano con la mdp ad altezza d’uomo. Qualcuno avvisi Pazuzu di suddetto scempio, è a rischio la sua fama. Voto: 4.

sabato 25 settembre 2010

The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair (Daniel Myrick, Eduardo Sanchez – 1998)



Cast: Heather Donahue, Michael C. Williams, Joshua Leonard
Genere: Horror (nel valore assoluto del termine)
Durata: 81 interminabili minuti
Paese: Usa

140 milioni di dollari incassati negli States e 8 milioni di euro nel nostro paese, al cospetto di una modesta spesa di 35.000 dollari. Questo l’assunto, accompagnato da semplici cifre, che potrebbe sintetizzare l’idiozia del genere umano. Come può un film, scusate, un bidone come The Blair Witch Project aver racimolato tanti quattrini? Come? Eh? Giusto, avete ragione, è accaduta medesima cosa con Paranormal Activity; marketing mediatico, l’aver spacciato il tutto per una storia vera e l’alto tasso di dabbenaggine dello spettatore medio. Poi tu, ingenuo boccalone, esci dal cinema conscio d’aver visto una cazzata e, pur di non fare figure di merda e passare per “colui-che-si-è-fatto-fregare-dai-trailer”, ostenti soddisfazione con singolare spocchia e suggerisci al tuo migliore amico che codesto è un capolavoro. Poi il tuo migliore amico va al cinema, vede il film, s’accorge che è una cazzata e, pur di non fare la figura di merda di “quello-che-si-è-fidato-come-un-pollo-di-TE”, suggerisce al suo migliore amico (ahimè non sei TU!!) che questo è un film che va assolutamente visto. Ed ecco spiegato in 5 righe come nasce il Passaparola. Ciò che non si spiega è perché io abbia rivisto questo film dopo 12 anni?! Forse la brama di conoscenza, voler capire come sono nati i molteplici “figli” dell’handycam movie quali Rec, Diary of the Dead, Cloverfield e purtroppo Paranormal Activity. E cosa ho dedotto? 3 cose: 1) esistono film che possono risultar lunghi e infiniti anche durando soltanto 81 minuti 2) una persona vista in primo piano può essere davvero immonda 3) la mia psiche non era pronta a tale calvario visivo. Sorvolando sul fatto che i due registi a quest’ora sguazzino nell’oro su un attico di Las Vegas scortati da 8 puttanoni olandesi, detto con un panegirico intriso di rabbia e forse invidia The Blair Witch Project è uno di quei film la cui trama potete tranquillamente seguire mentre con una mano infornate un soufflé, con l’altra preparate una Pina Colada, senza disdegnare nel frattempo un paio di lezioni di balli latinoamericani con la musica a palla; insomma un po’ come vedere una puntata a caso di Beautiful. Ora dovrei pure raccontarvi la trama???!!! Voto: 3.

Domanda del secolo
: Come sono stati spesi i 35.000 dollari di budget?
Costo tenda da campeggio – 1000 dollari
Stipendio attori – 500 dollari (voglio sperare non siano di più vista l’esibizione da recita di fine anno)
Mappa – 30 dollari
Effetto muco nasale della protagonista – 15 dollari
Mazzarelle di legno disposte a forma di stella – 4 dollari

Dove è finito il resto del budget???

sabato 18 settembre 2010

The Cove (Louie Psihoyos, 2009)



Genere: Documentario
Durata: 92’

Questo non è un film horror. E’ molto peggio. Ogni anno, tra settembre e marzo, nella baia di Taiji (Giappone) i pescatori del luogo catturano un tot di delfini da vendere ad emissari-ammaestratori spediti da tutti delfinari del mondo. I delfini scartati, perché per nulla somiglianti a Flipper, vengono radunati nella spiaggia adiacente, detta Il Covo, ove i pescatori provvedono letteralmente a sterminarli. Ne muoiono 23mila l’anno. Una mattanza a cui cerca di porre un freno Ric O’Barry, addestratore in tenera età proprio sul set di Flipper, passato dall’altro lato della barricata dopo aver assistito al “suicidio” di un delfino che nottetempo smise di respirare tra le sue braccia (il respiro per i delfini è un gesto volontario). Ric ci mette il cuore creando un equipe composta da atleti esperti in tutti i campi: da una coppia di sommozzatori ad alcuni tecnici capaci di infilare una telecamera HD in una simil-roccia. E non fa niente se l’ex addestratore di Flipper sia bandito dal congresso annuale tenuto da esponenti provenienti dall’intero globo, dove il Giappone, rappresentato da un personaggio di raro squallore etico, fa la parte del leone fuorviando norme fuorviabili e corrompendo, in cambio di voti, paesi sconosciuti ai più quali Dominica e altri la cui esistenza ignoravo sino ad ora. In più, quale fattore deterrente a tale scempio, ci sarebbe un reale rischio per la salute del popolo nipponico. La carne di delfino contiene una percentuale di mercurio dannosissima per le donne in stato di gestazione. Quella che potrebbe sembrare una semplice teoria è in realtà un dato di fatto testimoniato da una Sindrome che, in tempi non sospetti, colpì svariate città causando disturbi di natura psicofisica a un elevato numero di bambini (qui le parole di un padre distrutto straziano il cuore). E quindi risulta ancora più sconcertante l’idea del sindaco di Taiji di distribuire gratuitamente carne di delfino nelle mense scolastiche, per ricordare alla plebe che mangiare delfini è un’abitudine alimentare la cui tendenza nessun occidentale potrà invertire. Insomma i fattori per lo stop al massacro sussistono e sono innumerevoli. Ma a parte qualche illustre licenziamento non è cambiato nulla. Cinematograficamente qualche passaggio retorico c’è (delle canzoncine “tipiche”) ma nulla in confronto al messaggio ambientalistico inviatoci da O’Barry. Se avete qualche dubbio rivedete all’infinito quegli ultimi maledetti 4 minuti fin quando quel mare rosso sangue non vi entrerà nella testa tormentando i vostri sogni. Non c’è peggior incubo della realtà. Nessun essere vivente merita di morire in quel modo, che sia un delfino o un maiale. Come ci ricorda la nomenclatura finale la mattanza riprenderà a settembre. Almeno ché noi non la fermiamo. O almeno ché non la fermi tu. Voto: 9
Indirizzi internet di riferimento: takepart.com/thecove www.opsociety.org

sabato 11 settembre 2010

Chi sei? (Ovidio Assonitis – Roberto D’Ettore Piazzoli, 1974)



Cast: Juliet Mills, Richard Johnson, Gabriele Lavia, David Colin jr.
Genere: Horror
Durata: 110’
Paese: Italia
Altro Titolo (per il mercato Usa): Beyond the door

Jessica Barret, moglie di un ambizioso discografico (quest’ultimo un incrocio tra l’arrangiamento malriuscito di Donald Sutherland e un pivello John Holmes) e madre di due bambini incredibilmente scapestrati, scopre di essere pregna, nonostante le ovvie precauzioni, per la terza volta. In grembo (tras)porta un bambino che si prospetta debba essere l’Anticristo. Ciò è confermato dall’irregolare e frettoloso decorso della gravidanza e dai repentini, oltremodo inquietanti sbalzi d’umore di Jessica (se si può parlare di semplici sbalzi d’umore quando una persona divora una buccia di banana raccolta dall’asfalto). In soccorso della famiglia Barret giunge un uomo misterioso, tale Dimitri - morto anni addietro in un incidente stradale - che sostiene di poter curare la donna. Dimitri è in realtà in missione per conto del Diavolo con cui ha stretto il cosiddetto “patto” per il quale lui ha l’obbligo di vegliare su suddetta gestazione in cambio di una nuova vita tra i mortali. La trama è senza dubbio incasinata e difficile da riassumere, eppure l’agile montaggio e una regia sfrontata rendono il tutto più scorrevole tra momenti angoscianti e scene riuscitissime (vedi l’occhio basculante e la versione demoniaca di Toy Story). Il meglio è purtroppo tutto concentrato nella prima parte quando il plot si concentra sul mondo inascoltato e tenebroso dei bambini strizzando l’occhio a Rosemary’s baby - ma prendendo saggiamente le distanze dall’inarrivabile sceneggiatura paranoica del capolavoro di Polanski - per poi vacillare negli ultimi 40 minuti ove scende in campo una rivisitazione copia-e-incolla di L’Esorcista (con vomito verde, lievitazione, risatina sarcastica, voce alterata e quant’altro). Chi sei? (che al tempo registrò negli States ottimi incassi) non è soltanto un’inquietante domanda ma un horror da ripescare comunque a tutti costi per quel taglio naif tipico del “film italiano girato all’estero” e per i suoi modi spicci ma efficaci, oggigiorno ahinoi accantonati dai fautori dell’Horror Possessivo-Demoniaco. Voto – 7+

Curiosità: la CG Home Video proprio in questi mesi (esattamente dal 13 luglio) ha distribuito il film dell’accoppiata Assonitis-Piazzoli nell’ambito di un progetto più ampio mirato a deliziare i cinefili più avidi. In uscita anche Satanik, Keoma (di Castellari), gli Zombi di Lucio Fulci, Fragasso, Lattanzi e Girolami (questi ultimi a Ottobre) e altri introvabili titoli.

sabato 4 settembre 2010

Ombre dal passato (Masayuki Ochiai, 2008)



Cast: Joshua Jackson, Rachael Taylor, Megumi Okina
Genere: Horror ParaOrientale
Durata: 85’
Paese: Usa
Titolo originale: Shutter

Avevo una stima di Pacey – Joshua Jackson ai tempi del liceo; quando stringeva fragorosamente la mano a quel romanticone fallito di Dawson, giurandogli amicizia eterna, mentre con l’altra mano gli soffiava e trombava la relativa ragazza dei sogni, Joey; il tutto, la promessa e il furto, con la medesima e arguta faccia da culo. In fondo noi ragazzini privi di tatto, invidiosi e goduriosi nel vedere capitolare i fragili sentimenti di Dawson esplodevamo in un boato di gioia dinanzi a cotanto cinismo. Pacey era il silenzioso e bastardo paladino inviato nel nostro tubo catodico con l’unico intento di gabbare quei trasognanti studenti dediti al culto dell’ars amandi, nella sua accezione più tenera. Pacey, lo sterminatore dei buoni di cuore. Pacey, il ragazzo nel quale tutti vorremmo reincarnarci. Pacey, personaggio che avrebbe meritato come minimo uno spin-off. Non è andata purtroppo così. Joshua Jackson un’uggiosa sera di marzo è uscito di casa e ha deciso di cimentarsi con il cinema, e in particolar modo con l’horror (Cursed – Il maleficio, Urban Legend), scoprendo sulla propria pelle che dinanzi a lupi mannari, leggende metropolitane e fantasmi cinesi fare il Pacey non funziona più. Assumere la consueta faccia da schiaffi aspettandosi un tornaconto di natura sessuale nel nostro amato genere appare totalmente fuori luogo. Pacey, sorry Joshua Jackson, dimostra tale teorema anche in questo film, remake Usa di un horror thailandese firmato da un regista giapponese (non è una barzelletta), dove interpreta un fotografo in viaggio di lavoro a Tokyo con la consorte (Rachael Taylor). Le ombre dal passato (traduzione all’italiana di Shutter) sono quei simpatici spiritelli che fanno capolino nelle istantanee messe a segno dalla coppietta. In particolar modo c’è un fantasma che sembra accanirsi sui due, una ragazza dal misterioso passato in cerca di vendetta e/o attenzione (il dilemma amletico degli horror orientali). Chi sarà mai?; se siete attenti lo capite dopo 10 minuti. Se siete distratti dopo 30. La trama sarebbe sulla carta interessante, il film è su celluloide una merda. Pleonastico raccontarvi gli effetti speciali inutili e quel senso di monotonia arrecato dalle continue apparizioni dell’entità. Superfluo elencarvi le scene scult (il fantasma scovato a suon di flash) o i cliché del genere (il riflesso nel vetro del treno). Banale star qui a dirvi che la sceneggiatura (con gli stessi snodi narrativi di The Ring) zoppica vistosamente e va a impantanarsi in un irritante tedio che a confronto di tensione Riflessi di paura con Kiefer Sutherland fa la figura di Full Metal Jacket. Insomma di pregi neanche l’ombra; né dal passato, né dal presente. Un solo consiglio può tornar utile: attenzione alle donne che frequentate, occhio quando dovete mollarle, possono restarvi sul groppone per tutta la vita. Voto – 4.

Se qualcuno di voi in ascolto ha la sfortuna di vedere questo film può gentilmente spiegarmi il senso dell’urlo straziante all’apparire dei titoli di coda????? Grazie!

sabato 31 luglio 2010

La Horde (Yannick Dahan - Benjamin Rocher, 2009)



Cast: Claude Perron, Jean-Pierre Martins, Eric Ebounaey
Genere: Horror
Durata: 90’
Paese: Francia

Parigi: 5 poliziotti, accecati dalla rabbia per l’assassinio di un collega, irrompono in un condominio fatiscente, decisi a stanare una banda criminale multietnica e al fine di liberare un infiltrato tenuto in ostaggio da quest’ultima. Dopo una becera carneficina nella quale a uscirne vincitori sono senza dubbio i malviventi, capitanati dal cliché dei cliché – ovvero l’Eroe Afro-Americano (nigeriano per la precisione), i protagonisti scoprono sulla loro pelle che qualcosa non va; i morti tornano fulmineamente in vita e contro ogni dogma romeriano non si muovono a rallenti bensì sono scatenati come i Demoni di Lamberto Bava. Parigi, sullo sfondo, è messa a ferro fuoco da questa strana epidemia mentre l’inespugnabilità del condominio, minacciata da migliaia di zombi deambulanti nei paragi, vive dell’improbabile alleanza tra buoni e cattivi (e voi mi chiederete “Quali sono i buoni?”). Da segnalare verso il quarantesimo minuto l’apparizione di un fanatico sessantenne, reduce dalla guerra in Indocina del ’64, che si ostina a etichettare quali “cinesi” i morti viventi in questione; destinato da copione a morire subito per la sua spiccata immoralità, si erge incredibilmente ad eroe con tanto di mitragliette e bombe a mano, reggendo fino al novantesimo e capitolando in zona Cesarini. Per il sottoscritto parlare di zombi è come per un calciofilo poter raccontare le gesta della squadra del cuore. La Horde è prima di tutto un bel film. Difficile spiegare se alcuni momenti sono sinceri omaggi a 28 giorni dopo o semplici scopiazzature (vedere la scena iniziale delle ombre veloci sull’asfalto) e altrettanto difficile mandar giù delle scene assurde (il massacro perpetrato dal tettuccio dell’auto) che farebbero invidia anche a L’alba dei morti viventi di Zack Snyder. Eppure il profilo morale della sottotrama, giocata sulla fusione ideologica tra criminali e piedipiatti, è ammaliante e sembra ridursi a due inviolabili assunti; 1) quando si tratta di sopravvivenza non esistono amici 2) di conseguenza siamo tutti delle merde. Voto – 7.5.

martedì 27 luglio 2010

Ring 2 (Hideo Nakata, 2005)



Cast: Naomi Watts, David Dorfman, Simon Baker, Sissy Spacek
Genere: Horror
Durata: 110’
Titolo originale: The Ring two

La saga di The Ring tra gli originali giapponesi e i remake a stelle e strisce è particolarmente ingarbugliata. L’Hideo Nakata in questione è colui che ha dato vita ai primi due capitoli giapponesi, Ringu e Ringu 2, entrambi tratti dai libri di Koji Suzuki. Poi è stato convocato dai produttori hollywoodiani i quali gli hanno gentilmente chiesto di rifare il suo stesso film (un po’ come il Funny Games di Haneke, guarda caso anch’esso con Naomi Watts) continuando lì dove il collega Gore Verbinski aveva concluso. Ora stare qui a spiegare perché un film popolato da anonimi volti orientali venga rifatto a distanza di pochi anni con l’unica differenza che gli occhi a mandorla cedono il passo a grossi, fieri, libidinosi sguardi alla Zio Sam risulta superfluo e quanto mai banale. Ringu 2 è il richiamo alle armi di Samara; la mammina Rachel credeva d’averla fatta franca dopo essere stata involontaria artefice del trapasso del suo ex a cui aveva fatto vedere una copia della maledetta vhs. Ma non è bastato scappare col figlioletto Aidan, trasferirsi a Seattle e scalciare il marcio sotto il tappeto. Samara e i suoi capelli neri effetto mocio corrono tra i banchi di un mercatino di videocassette. La ragazzina dal passato nefasto è tornata e questa volta, pur d’accasarsi e trovare una mamma disposta a non ammazzarla, sembra voglia impossessarsi del piccolo e mefistofelico Aidan. A noi spettatori dopo 10 minuti verrebbe da suggerire: “E prenditelo pure sta specie di bambino con la faccia da scimpanzé!” ma purtroppo la dolce Rachel (Naomi Watts quand’era in carne e gnocca) non è affatto d’accordo anche se per un attimo tenta di affogarlo nella vasca, non si sa se per sbaglio o per esaudire il nostro grido d’aiuto. La trama denota la stessa scansione temporale del primo capitolo con morte dell’aspirante consorte (il Simon Baker di The Mentalist) verso il settantesimo minuto, apparizione di animali impazziti e scena madre nel pozzo del martirio. Ora la differenza sostanziale col capitolo precedente sta tutta nel ruolo rivestito da Samara; interessante, misteriosa, supplichevole nel primo, odiosa, insopportabile e purtroppo onnipresente nel secondo. Il rapporto madre-figlio è sin troppo unilaterale per ispirare tenerezza e il gesto estremo nel nome dell’amore materno ha ben altra caratura emotiva in quel capolavoro che è Dark Water. Acqua, appunto. Elemento portante qui come in tutto l’horror orientale; è ovunque e in ingenti quantità. Chiedetelo al bambino, o a quel vecchietto rinchiuso nel corpo di un marmocchio di 8 anni, che in più di un’occasione si ritrova ammarato nella vasca!! Voto – 5.5.

sabato 3 luglio 2010

Venerdì 13 (Marcus Nispel, 2009)



Cast: Jared Padalecki, Aaron Yoo, Amanda Righetti, Danielle Panabaker
Genere: Horror
Durata: 97’
Produzione: Usa
Titolo originale: Friday the 13th

Madre de dios. Il concetto d’obbrobriosità assume prospettive aberranti quando si parla di horror, eppure era difficile, forse impossibile, far peggio dell’originale sfornato 30 anni fa da Sean S.Cunningham. Il nuovo capitolo, per la precisione il dodicesimo, non è un remake nonostante il titolo ci suggerisca il contrario, non è un reboot sebbene debutti la maschera da hockey, non è un prequel perché ce ne sbattiamo dell’infanzia di Jason, quindi cos’è? Parlare di sequel risulterebbe fallace; la continuità temporale è un assunto sconosciuto ai tanti artefici della saga. Ogni tassello, al contrario della sestina di Saw, ha vita a sé stante. Questo non fa alcuna eccezione: tra le putride acque di Crystal Lake aleggia il demone maledetto di Jason Voorhees, 4x4 con ampio bagagliaio(malgrado sia morto da bambino), pronto ad accanirsi su una ridda di giovani inebetiti in vacanza. Trama da abbecedario dello slasher. Per il resto un’accozzaglia di squallidi luoghi comuni; 200 gr di fumo, tette siliconate a iosa, sesso q.b., una spremuta abbondante di idiozia e dialoghi ridotti all’osso. Mescolate il tutto con una serie di personaggi oramai logori quali lo sceriffo che trapassa sull’uscio di casa, un meccanico bifolco dai denti giallognoli, e una coppia multietnica di segaioli, quindi spegnete il cervello, indossate un paio di comode babbucce e mettete l’impasto in forno per 90 minuti. A mancare è purtroppo l’ingrediente principale. Cos’è Venerdì 13 senza sangue? Un’amatriciana senza guanciale. La violenza, unico motivo di perverso interesse per il 90% dell’horror moderno, è qui priva di becera efferatezza; risulterebbe più atroce una pacca sulla spalla dispensata dal vostro miglior amico che uno degli svariati accoltellamenti inflitti da Jason. Noia, noia e ancora noia. Ma qualcosa che fa realmente paura c’è; la possibilità – come suggerisce l’epilogo – di un ulteriore sequel. Brrrrr. Voto – 4.

sabato 26 giugno 2010

Black Sheep (Jonathan King, 2006)



Cast: Matthew Chamberlain, Nathan Meister, Peter Feeney
Genere: Commedia Horror
Durata: 87’
Produzione: Nuova Zelanda

Finché gli agnelli diventeranno leoni”. Basterebbe l’epigrafe del Principe dei ladri a riassumere il plot di questo curioso filmetto giunto dalla terra tutta haka e All Blacks; Henry, giovanotto scioccato in tenera età dalle pecore, torna alla fattoria di casa per liberarsi della sua fetta di proprietà. Tra le lande desolate c’è l’immondo fratello, sfegatato zoofilo e creatore di un intruglio chimico capace di trasformare docili pecorelle in feroci cannibali. Non mancano un paio di ambientalisti spiantati, un campagnolo zoccolato, un’anziana regina dei fornelli e svariati medici dal destino segnato. E non manca lo splatter, tanto caro al più celebre regista neozelandese contemporaneo, Peter Jackson, che con Bad taste (esordio del 1987) sembra aver fatto scuola; molteplici momenti di cattivo gusto e invidiabile cura del make-up (alcuni smembramenti sanno di Tom Savini) segnano il tracciato più breve verso la follia assoluta. A trionfare è la demenza che tra le sottili maglie del non sense spara a zero sul sistema evidenziando le contraddizioni di qualsivoglia ceto sociale (che siano politici o ambientalisti). A far sorridere sono le trasparenti citazioni cinefile; la trasformazione dell’uomo in pecora è un divertentissimo omaggio alle realistiche metamorfosi di Un lupo mannaro americano a Londra (John Landis, 1981) e de L’ululato (Joe Dante, 1981), e l’idea che l’essere umano possa assumere le sembianze non di un predatore ma dell’anello debole dell’intera catena alimentare è semplicemente geniale. Un crossover Wolfman vs Sheepman? Perché no! Voto – 6.5

sabato 19 giugno 2010

Il grande sogno (Michele Placido, 2009)



Cast: Luca Argentero, Jasmine Trinca, Riccardo Scamarcio, Massimo Popolizio, Laura Morante, Silvio Orlando
Genere: Drammatico
Durata: 94’
Produzione: Italia/Francia
Musiche: Nicola Piovani

Michele Placido ha realizzato il suo grande sogno: raccontare quel fervore sessantottino, vissuto personalmente dall’attore/cineasta tra le file della Celere, riesumato dai nostri padri nel tentativo di sentirsi fighi e evocato da noi giovani illusi di poter spaccare il mondo, ribaltare il sistema, defenestrare i gerarchi. Ma il ’68 è durato meno di un anno; il tempo di inneggiare al “Vietnam libero”, occupare La Sapienza di Roma e battersi il petto consci della merda che ai piani alti riempie la testa di chi muove i fili. Libero (Luca Argentero) è il primo cantore di questa utopia, incantevole masaniello universitario accompagnato dalla trasognante Laura (Jasmine Trinca), asfissiata da una famiglia convenzionale eppur così “passionale”. Nicola (Riccardo Scamarcio) è il terzo incomodo: sogna il cinema ma nel frattempo è un celerino infiltrato trai banchi universitari dove si busca una cotta tremenda per l’ingenua Laura. Nel frattempo i sogni si infrangono sotto i dritti manganelli dello Stato, pronto come un condor nel reprimere qualsiasi barlume rivoluzionario. E purtroppo ad infrangersi sugli scogli della noia è anche il film di Placido (già autore dello straordinario Romanzo Criminale) che dopo 45 minuti di cinema esemplare (fatto davvero con il cuore e sorretto da momenti atipici per il cinema made in Italy) spegne il fuoco che dentro gli arde dedicandosi morbosamente al trittico amoroso e abbandonando il contesto ancora in fermento. Un accantonamento che tradisce la Storia, e pugnala noi spettatori convinti, boccaloni, illusi che questo sia proprio un film sul ’68, che per un volta a trionfare non sia l’amore per una donna ma quello per un’ideologia, un “credo”, un’etica. Un’illusione, proprio come il ’68. Voto – 6.

Prestazioni
Luca Argentero: sobilla le maestranze sfruttando la sua faccia d’angelo. Probabilmente vittima del montaggio post-produzione compare (e questo è molto strano) sporadicamente come un vigile in una giornata di traffico. Voto – 6.5.

Jasmine Trinca: dolce quanto una meringa catalizza le attenzioni dei due belli di turno. E’ un’attrice di profonda bravura; sedotta, illusa, devastata prima dal Freddo in Romanzo Criminale poi dall’infiltrato Scamarcio. Sorte infame eppure è sempre lì pronta a rialzarsi. Voto – 7.5

Riccardo Scamarcio: la bellezza risiede nello sguardo. L’attore pugliese la sa lunga e sembra come al solito limitarsi al compitino. Qui è comunque oltre la sufficienza grazie a un ruolo impregnato di una bonacciona giovinezza, ma in un film “di pancia” dove le vene pulsano visibilmente vedere un ragazzo che non si sbraccia più di tanto è un crimine di guerra. Immaginate Elio Germano al suo posto. Voto – 6+.

Massimo Popolizio: simbolo di una famiglia ricca di principi preconfezionati, convinta di correre sul binario giusto ciononostante destinata a deragliare sul più innocuo sassolino. Semplicemente magnifico (e lo era già stato nel ruolo di Er Terribile in Romanzo Criminale). Voto – 9.

mercoledì 2 giugno 2010

The House of the Devil (Ti West, 2009)




Genere: Horror
Durata: 90’
Prod: Usa

Ancora Ti West e ancora ottimo cinema. Dai corridoi infetti di Cabin Fever 2 al vuoto pneumatico di una bella villetta il passo è breve. Samantha è una giovane e timida fanciulla a caccia di un lavoro remunerativo che le possa far racimolare un tot di soldi per fine mese; l’occasione giunge puntuale affissa alla bacheca universitaria. Cercasi babysitter. Lei accetta senza esitazioni. L’uomo deciso a offrirle l’incarico è però un misterioso vecchietto che non tarda a rivelare la reale entità di tale temporaneo impiego: Samantha infatti non si occuperà di un piccolo frugoletto bensì di una anziana signora relegata in una delle svariate stanze collocate al secondo piano. Lauta ricompensa e tempo esiguo; appena 4 ore. Chi non accetterebbe? Samantha dopo aver salutato i gentilissimi signori Ulman si piazza sul divano con l’unico intento di bivaccare per l’intera serata attendendo, come il resto del mondo, l’eclisse lunare che avrà il suo compimento allo scoccar della mezzanotte. Una seratina niente male. Peccato che i proprietari di codesta casa (supportati da un essere immondo e un similboscaoiolo bifolco) siano dei matti satanisti pronti a fecondare la donna nel nome del diavolo! Ti West la sa lunga perché tiene alto il ritmo senza fare praticamente una mazza; adotta il postulato sul quale si fonda l’intero cinema horror ovvero costruire la suspense nascondendo più che mostrando. L’angoscia si cela tra gli anfratti di un luogo familiare, oltre quella porta chiusa a chiave, dietro una tenda merlettata; la teoria dello sfrondamento presente anche nel piccolo capolavoro qual è Them. The House of the Devil con un po’ di fantasia è una sorta di prequel dell’intera saga di Omen che ci spinge a supporre che in quel pancino sciorinato nel finale possa esserci proprio il malefico Damien, il nuovo Anticristo. Voto – 7.

giovedì 20 maggio 2010

Cabin Fever 2 (Ti West, 2009)



Cast: Rider Strong, Noah Segan, Alexander Isaiah Thomas, Giuseppe Andrews, Alexi Wasser
Genere: Horror
Durata: 86’
Prod: Usa

Ecco un Horror decente che non vedremo mai in sala. Scovato in rete con tanto di sottotitoli, il sequel di Cabin Fever (Eli Roth) è un film davvero piacevole; fusione calibrata tra commedia “teenageriale” e horror pandemico, paradossalmente visto dal sottoscritto a pochi giorni da La città verrà distrutta all’alba, identifica - come quest’ultimo – l’acqua quale mezzo più pericoloso per la diffusione del caos (accadeva lo stesso anche in Batman Begins). Girato con ampio budget, a differenza della maggior parte degli horror “subbed” che circolano in rete, narra le vicissitudini di tre studenti in piena fase ormonale; il bello, il nerd e la bionda che tra litigi, amori, rimpianti e pompini si ritrovano sotto lo stesso tetto nel Gran Ballo di fine anno. Il contagio è già in atto e chi ha avuto la sfortuna di sorseggiare una bottiglietta di Down Home Water è destinato a decomporsi nel giro di poche ore. La kermesse si tramuta in una danza macabra mentre misteriosi soldati (altra analogia con The Crazies) mettono in quarantena l’intera scuola non disdegnando un po’ di violenza gratuita. Cosa stia accadendo lo sa solo l’immondo vice sceriffo che tenta la fuga in tutti i modi. Conclusione vomitevole nei cessi di un Night, che è in realtà l’inizio di una contaminazione su larga scala. Ti West ci sa fare e spinge senza cadere in spocchiose volgarità il piede sul pedale degli eccessi: ingenti quantità di gore, liquidi seminali in ogni dove, amputazioni a crudo, fuoriuscite di pus dal pene, ponce a base di urina infetta. Uno schifo! Ma uno schifo che si fa guardare volentieri. Da notare l’incipit e l’epilogo in formato cartoons; un’idea geniale. Voto – 7.5.

giovedì 13 maggio 2010

Oltre le regole (Oren Moverman, 2009)



Cast: Woody Harrelson, Ben Foster, Samantha Morton, Steve Buscemi
Genere: Drammatico
Durata: 112’
Produzione: Usa
Titolo originale: The Messenger

Notificazione Vittime; un vero e proprio lavoro di merda quello che devono compiere il Sergente Will Montgomery, parzialmente guarito dopo averci quasi rimesso le penne su una mina in Iraq, e il Colonnello Tony Stone, uomo ligio al dovere e all’apparenza tutto d’un pezzo. Bussare alla porta dei “cari”, dire al padre/alla madre/alla moglie “Suo figlio/suo marito ieri è morto in Iraq” e restare lì impassibili dinanzi al dramma che esplode. Tony, veterano del settore, suggerisce al collega debuttante “Ultima regola: nessun contatto con i parenti”, mai abbracciarli, mai cadere nella tentazione di un qualsivoglia gesto di commiserazione. Ma Will se ne sbatte delle regole e s’invaghisce della vedova di guerra Olivia, supportandola, e imbastendo con lei un rapporto tenero e silenzioso. Ciò che resta scolpito nella mente non è l’appena citata storia d’amore (dolce ma accantonabile) bensì la reazione dei parenti alla sconvolgente notizia; urla, pugni, sputi, vituperi s’abbattono sui protagonisti in questa valle degli orrori. Uno strazio. Uno strazio che fa male. I volti, gli sguardi di Will e Tony fanno il resto; nei loro occhi è nascosto il non sense di un compito che qualcuno deve pur svolgere. Scontato sottolineare le performance eccezionali di Ben Foster e Woody Harrelson (stupendo vederli insieme – quest’ultimo ha conquistato la nomination agli Oscar), è doveroso invece ricordare che la sceneggiatura – perfetta – scritta a 4 mani col regista, è dell’italiano Alessandro Camon. Opportuno vederlo in lingua originale per apprezzare la sofferenza messa in campo dagli attori comprimari. Voto – 8.5.

mercoledì 12 maggio 2010

ROBIN HOOD: 10 motivi per i quali andrete a Vederlo e Non

10 motivi per i quali vedrete Robin Hood
Perché avete una calzamaglia verde in armadio e aspettate con ansia torni di moda
Perché anche voi almeno una volta nella vita avete rubato ai ricchi per dare ai poveri…cioè a voi stessi
Perché volete sapere a cosa era dovuto il soprannome, attribuito al miglior amico di Robin Hood, Little John
Perché ha una “vaga” somiglianza con Il Gladiatore, molto “vaga”
Perché Robin Hood e Little John van per la foresta ucci ucci leruleru oggi splende il sol
Perché se non andate a vederlo Russell Crowe viene a casa e vi pesta di brutto
Perché è in programmazione in entrambi i cinema del vostro paese quindi non avete alternative
Perché 7 euro per un film di due ore e mezza è un affare
Perché nessuno tra Robin Hood, Little John, lo sceriffo di Nottingham, Lady Marion, Giovanni senza terra e Riccardo cuor di Leone è interpretato da Nicolas Cage
Perché non è in 3D

10 motivi per i quali non vedrete Robin Hood
Perché i protagonisti non sono blu, come in Avatar
Perché arco e frecce sono per femminucce, voi preferite le armi da fuoco
Perché avete già visto quello con Kevin Costner e basta e avanza
Perché non è tratto da un libro di Federico Moccia
Perché voi avete già visto la foresta di Sherwood e non è un granché
Perché non vi sono bastati 30 anni per capire che Robin Hood non è una volpe ma un essere umano
Perché non vi sono bastati 30 anni per capire che Robin Hood non è lo stesso personaggio di Batman e Robin (nonostante la calzamaglia verde)
Perché all’Annunziatella c’è la Sagra del Carciofo
Perché nessuno tra Robin Hood, Little John, lo sceriffo di Nottingham, Lady Marion, Giovanni senza terra e Riccardo cuor di Leone è interpretato da Nicolas Cage
Perché non è in 3D

domenica 9 maggio 2010

La città verrà distrutta all’alba (Breck Eisner, 2009)



Cast: Timothy Olyphant, Radha Mitchell, Joe Anderson
Genere: Horror
Durata: 101’
Prod: Usa
Tit. Originale: The Crazies

L’idea del contagio tira tanto nell’ultimo decennio (28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Io sono leggenda ecc. ecc.); qui come in Cabin Fever è l’acqua vettrice incontenibile del male; pura, innocente eppure letale. Cosa accade se un aereo con a bordo strane sostanze batteriologiche precipita nel laghetto di un piccolo paesino rurale? La gente comincia a dare di matto: un anziano rubizzo irrompe in una partita di baseball imbracciando il fucile, un tranquillo signore brucia la propria casetta uccidendo moglie e figlio. Chi ci salverà da codesta convulsa epidemia? Nessuno perché il colpevole governo la sa lunga e dopo aver tentato inutilmente di arginare la catastrofe opta per una drastica soluzione; spazzare via tutto senza se e senza ma. E non bastano lo sceriffo diligente, la moglie urlatrice e il vice scriteriato a cambiare le sorti di un destino già scritto. La città verrà distrutta all’alba (parziale remake dell’omonimo di Romero) è stato grossolanamente etichettato come Zombi-movie denotando il solito qualunquismo di una porzione di addetti ai lavori che con l’horror ha poca dimestichezza e che identifica come morti viventi chicchessia con qualche rotella fuori posto. The crazies è l’apologia del tutti contro tutti, un buon action movie che costruisce il suo capitale su alcune riuscite scene ad alto tasso adrenalinico (nell’autolavaggio) ma che, nonostante il materiale a disposizione, evita di porre alla berlina la superficialità di chi nella scala del potere occupa il gradino più alto; e le riflessioni sul tema della pazzia – come malattia o come stato emotivo - sono sbiadite alla stregua del cioccolato scaduto. Comunque un film nient’affatto noioso ciononostante ricco di sempiterni cliché e stupide incongruenze (camion che si ribaltano lasciando illesi i protagonisti, gravi ferite che si rimarginano in pochi secondi). Divertente, avvincente ma che smette di esistere prima di una nuova alba. Voto – 6.5.

Suggerimenti: vi siete mai chiesti da dove proviene l’acqua della vostra fontana?
Guida ai luoghi comuni di La città verrà distrutta all’alba
L’auto che non parte: “Metti in moto!!” “Cazzo ci sto provando!”
One Kill One Shot: il colpo di pistola che ti salva allo scadere.

giovedì 6 maggio 2010

Pacco, doppio pacco e contropaccotto (Nanni Loy, 1993)



Cast: Italo Celoro, Leo Gullotta, Giobbe Covatta, Marina Confalone, Alessandro Haber, Mara Venier
Genere: Commedia a episodi
Durata: 113’

“Cà nisciun è fess!” sembrano dire i protagonisti del quinto film di Nanni Loy all’ombra del Vesuvio, dove l’arte dell’arrangiarsi non è una marginale scappatoia da una crisi bensì la filosofia di vita su cui poggiano le sorti di un popolo. 10 episodi nel nome della truffa, a ricordarci che la strada più breve non è mai la più semplice, sorretti da un cast di ottimi caratteristi napoletani (tra i quali lo “stabiese” Italo Celoro e la mitica Marina Confalone) accompagnati da attori di caratura extrapartenopea come Leo Gullotta e Alessandro Haber. Opera simpatica, rea però di mostrare il fiato corto dal fischio d’inizio a causa di un meccanismo che si ripete inesorabilmente per 10 volte svelando il solito ribaltamento di fronte nel finale; Napoli è ridotta al classico “teatrino delle macchiette”, a cui siamo cinematograficamente abituati, privo di spessore emotivo e dove sembra che i cittadini si sveglino la mattina per scendere da casa pronti a calcare il palco della vita ogni giorno in un ruolo diverso. Sostanzialmente un mezzo passo falso nel curriculum di Nanni Loy, creatore della Candid Camera in tv, e autore di una delle più belle commedie amare di sempre, Detenuto in attesa di giudizio con un immenso e singolare Alberto Sordi Voto – 6.

domenica 25 aprile 2010

Fragile – A ghost story (Jaume Balaguero, 2005)



Cast: Clarista Flockart, Elena Anaya, Colin McFarlaine
Genere: Horror
Durata: 95’
Produzione: Spagna

All’istituto pediatrico di Mercy Falls c’è una preoccupante carenza di personale; la giovane Amy è chiamata a sostituire la precedente infermiera, Susan, che ha prima abbandonato il lavoro ed è poi morta in un sospetto incidente stradale. Tra le grazie di Amy entra subito a far parte la piccola Maggie, dall’animo ribelle e in perenne contatto con l’immaginaria Charlotte, una “bambina meccanica” che deambulerebbe tra i corridoi del secondo piano, deserto da ormai 40 anni, visibile solo ai più “fortunati”.
Le ghost story sfoggiano una batteria di personaggi buona per ogni stagione: la donna (la Mamma Abbandonata) dall’indole gracile ma pronta al sacrificio, la bambina a cui nessuno crede (il Figlio Misterioso), l’amica immaginaria in cerca d’affetto (il Bambino Nipponico) e il primario affascinante, inguaribile gnorri. Il compitino non basta quando la sceneggiatura, edificata a tavolino, gestisce in malo modo i burattini di cui sopra e si affida a un simil colpo di scena che non impressionerebbe neanche la persona più emotiva di questo mondo. Da contorno ci sono trambusti, cigolii e fragori sinistri esacerbati dal sonoro tipico del genere, puntellato da violente sferzate di violino a sottolineare i momenti clou della storia. Un film quindi più fragile delle ossa del piccolo Simon, presunto protagonista della faccenda ma accantonato in seconda battuta per motivi tuttora ignoti; manca il “cuore”, entrato in gioco nel finale e tirato via da un vile compromesso che una signora attempata giustifica così: “Ci sono domande a cui non sappiamo dare delle risposte”. Altresì traducibile: “Lo sceneggiatore è un gran coglione!!”. Voto – 5.

martedì 20 aprile 2010

Welcome (Philippe Lioret, 2009)

Cast: Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana
Genere: Drammatico
Durata: 104’
Produzione: Francia

Bilal è un 17enne iracheno giunto clandestinamente nel nord della Francia, dopo aver attraversato l’Europa, con l’obiettivo di poter raggiungere la propria ragazza a Londra e una volta arrivato in Inghilterra divenire un calciatore del Manchester United. Come? Dopo il primo tentativo fallito di varcare la frontiera a bordo di un camion al giovane curdo non resta che realizzare un’azione di caratura epica: attraversare la Manica a nuoto. L’unica persona in grado di aiutarlo è Simon, compassato istruttore di nuoto in crisi con la moglie dalla quale sta divorziando. Welcome è stato accolto al Festival di Berlino 2009 nella sezione Panorama con ben 15 minuti di applausi; meritatissimi perché è un film perfetto, transalpino in ogni inquadratura. Il tema dell’immigrazione è caro al cinema francese e in questo caso trova la sua summa espositiva negli occhi carichi di speranza del protagonista, troppo giovane per capire la reale entità dell’impresa ma così caparbio da spingerci a pensare che il muro delimitante l’impossibile non è così alto come sembra. Occhi lucidi garantiti e un’ultima immagine che per gli amanti del “pallone” ha un sapore particolare. Voto – 8.5

mercoledì 14 aprile 2010

Hostel (Eli Roth, 2005)



Cast: Jay Hernandez, Derek Richardson, Eythor Gudjonsson
Genere: Horror
Produzione: USA
Durata: 90’

Il nuovo millennio del cinema horror ha avuto inizio con il grande boom (e relativo saccheggio a stelle e strisce) del “mercato” orientale: The Ring, Dark Water, Ju-On, Two Sister e via dicendo. La paura a culmine di un’attesa sorretta da pargoletti ululanti, specchi meschini e sofferenze recondite. Sangue e torture assenti perché non conformi al dogma portante delle Ghost Story. Successo “umile ma onesto” ai botteghini, soprattutto grazie all’exploit di The Ring (remake di Ringu). Le Storie di Fantasmi Cinesi sembrano funzionare perché mirate a scardinare il lato introspettivo del genere; a spaventarci non sono mostri, alieni o serial killer ma gli scheletri nell’armadio. Eppure siamo nel 2002; il 90% della popolazione terrestre è col nasino sulla mappa nel tentativo di capire dove cavolo sia finito quel marpione di Bin Laden. Il nostro vicino crede di aver visto il Mullah Omar nella salumeria sotto casa. Tutti, improvvisatici filoamericani for a day, sentiamo una rabbia ribollire nelle vene al ricordo di quelle torri così imponenti, così maestose, inno all’egocentrismo made in Usa, buttate giù con tanta grazia da 2 boeing guidati da una combriccola di “martiri” neopatentati. Dobbiamo pur sfogarci, dar qualcosa in pasto a quella sensazione di vendetta, ahimè inappagata. Il pubblico post 11 settembre, during guerra in Iraq e inside Guantanamo ha esplicito bisogno di violenza gratuita, e l’horror giunge in soccorso come uno Steven Seagal d’antan. Saw fa da apripista; l’Enigmistica del titolo ci ricorda che abbiamo tanto peccato e un po’ di sana sofferenza fisica ci condurrà all’espiazione delle nostre colpe. E vai con le atrocità inflitte per mezzo di seghetti e altri oggetti dai denti irti e spigolosi. Nessuno lo sa ma è nato il Torture porn. Cos’è il Torture porn? A spiegarcelo giunge Hostel, nato dalla mente contorta di Eli Roth, fedele scudiero di un altro essere dalla mente contorta, Quentin Tarantino. Il meccanismo narrativo è una fusione tra lo schema classico dell’horror bucolico partorito da Non aprite quella porta e il nuovo concetto di horror moderno. C’è quindi una prima parte scritta su misura per delineare l’idiozia dei giovani protagonisti; 2 americani e un islandese in gita “di piacere” pronti a trombarsi l’Europa in lungo e in largo. Francia, Svizzera, Belgio e prossima fermata: Barcellona. Ma esiste un posticino migliore dove le ragazze ti si concedono anche se non hai le Extraordinary Measures di Rocco Siffredi. Quel posto si chiama Slovacchia. Entrate nell’ostello e “dite che vi ci ho mandato io”; parole di un fidato tossico dell’est, parole sante. Il tempo di posare le valigie nella stanze e due ragazze (una bionda e una mora, come le veline) senza mezzi termini ti fanno capire che quella sera un’orgia a 4 sarà il minimo sindacale, le fondamenta dalle quali partire per una vacanza a base di sesso e alcool. Voi, malati spettatori, seduti in poltrona state già contattando la vostra agenzia di viaggio. Ma ecco cominciare la seconda parte di cui sopra. Ecco irrompere il dramma. Ecco la svolta a ricordarci che Hostel è prima di tutto un horror, non un porno softcore. I ragazzi scompaiono uno ad uno senza destare sospetti, intontiti dalle fanciulle e finiti tra le grinfie di ricchi pazzoidi disposti a sborsare cifre esorbitanti pur di martoriare qualche innocente. Spendi un tot e scegli il/la malcapitato/a. Come lo vuoi? Americano? Con gli occhi a mandorla? Zoppo? Stupido? Esaurito? Abbiamo di tutto. La scena del crimine è una stanza fetida (il Luogo Comune del terzo millennio), il cui buio è spezzato da una luce fioca. Arredamento spartano: un mobiletto su cui sfilano gli attrezzi del mestiere (trapani, bisturi, pinze, seghe, fiamme ossidriche…) e una sedia ferruginosa per la “merce” da brutalizzare. Si aprano le danze. Scorrano fiotti di sangue. Amputazioni e ustioni facciali regnino incontrastate.
Qual è il messaggio di Hostel? Non credete a quello spot secondo il quale ci sono cose che non hanno prezzo. Il consumismo ci insegna che il Verdone è come un gigantesco motore che girare il mondo fa. E noi dinanzi al suo potere chiniamo il capo, vittime e carnefici della dimensione contemporanea da noi stessi creata. Nulla più stuzzica l’animo, nulla sa emozionarci. Allora perché non togliere la valvola alle nostre perversioni? Basta avere quello, il Verdone. E se non lo tieni ti attacchi, aspetti i saldi. Ma devi accontentarti della merce accantonata. Roba scadente e taglie grandi. Voto – 7.

domenica 11 aprile 2010

Machan (Uberto Pasolini, 2008)



Cast: Dharmapriya Dias, Gihan De Chickera, Dharshan Dharmaraj
Genere: Commedia
Durata: 110’
Prod. : Italia/Germania/Sri Lanka

Tra i miseri anfratti di Colombo una combriccola di amici senz’arte né parte (un bel gigolò, un inguaiato scavezzacollo, un truffatore sibillino…) spera di ricevere il visto per abbandonare lo Sri Lanka e raggiungere il sogno europeo. Ma tra cavilli burocratici, inequivocabili dinieghi e soldi andati in fumo tutto svanisce. Qual è allora l’unica via di fuga per i nostri eroi popolani? Iscriversi a un torneo di pallamano che si terrà in Germania, presentandosi sotto le mentite “maglie” della Squadra Nazionale di Pallamano dello Sri Lanka (S.L.H.N.F.). Come nelle migliori favole il colpaccio riesce, eppure l’iniziale idea di giungere in Baviera al mero fine di dileguarsi nelle nazioni limitrofe cede il passo all’orgoglio campanilista, e il team cingalese, pienamente ignaro delle nozioni basilari dell’Handball, decide ugualmente di scendere in campo per onorare la causa. Uberto Pasolini torna sugli stessi temi di Full Monty – del quale era stato produttore – chiudendo il classico gruppo di scapestrati in un vicolo cieco e affidandosi alla loro inventiva. Ne nasce un ibrido tra Fuga per la vittoria e Train de vie (per la simpatica assegnazione dei ruoli) dove il mastice granitico è lo sport, dotato di una forza unificatrice capace di abbattere anche i più beceri interessi restituendo ai protagonisti una dignità nazionale per tanti purtroppo perduta. E così quella palla che lentamente si insacca, a suggellare l’unica rete (dopo due k.o. siderali) della “nostra” sregolata squadra si tinge di connotati epici; un abbraccio corale lungo una speranza, una buonanotte sussurrata nei corridoi che sa di addio, poi annullare il passato, salire su un camioncino, viaggiare verso il Paese dei Balocchi e ricominciare da zero. Sarà vera gloria? Voto – 8.

giovedì 8 aprile 2010

King Kong (Peter Jackson, 2005)



Cast: Naomi Watts, Jack Black, Adrien Brody
Genere: Avv/Fant.
Durata: 189’

Rivedere un film di 3 ore per la quarta volta non è sinonimo di pura follia; alla base di codesto insano gesto risiede un perché. King Kong è il primo grande eroe tragico del firmamento cinematografico. Lo sa bene il neozelandese Peter Jackson che con ben 207 milioni di dollari di budget (22 messi di tasca propria) ha realizzato il suo personale sogno nel cassetto: restituire con tecniche digitali moderne nuova linfa al gorilla nato (almeno sullo schermo) nel 1933 dal sodalizio Cooper – Schoedsack. L’opera è infatti più fedele all’originale che al rifacimento inefficace del 1976 di Guillermin e lo si nota da alcuni sottili riferimenti e dalla data nel quale l’epopea è ambientata: appunto il 1933. A New York impazza la crisi economica e il cinico regista Carl Denham ingaggia l’attrice malmessa Anne per girare un documentario su un’isola deserta. A fargli compagnia una troupe sprovvista, tanti marinai avventurieri e lo sceneggiatore Jack Driscoli. L’isola purtroppo non è affatto disabitata; presenti all’appello alcune tribù dalle tradizioni discutibili, dinosauri e insetti d’ogni specie e un gorillone alto 8 metri a cui i nativi donano in sacrificio giovani fanciulle. La malcapitata sarà proprio l’attrice Anne della quale lo scimmione si innamorerà follemente. Il resto è noto, con gran finale sull’Empire State Building. Peter Jackson porta con sé in ogni film il suo atavico difetto di lavorazione; la voglia di strafare. La parte centrale è infinitamente pleonastica dettata da inseguimenti incredibili (cioè non-credibili) e lotte ferine degne di Godzilliana memoria. E l’ingombrante eco di Jurassic Park più che far capolino nel racconto ne prende le redini a tutti gli effetti. Eppure King Kong è un film riuscito. La sua potenza sta nei teneri momenti di intimità tra la donna e il gorilla. L’iniziale e ovvia incompatibilità che col tempo assume i connotati di un linguaggio universale: quello dell’amore, non un amore qualsiasi, l’amore impossibile, irrealizzabile, che scorre nelle viscere, l’amore tra la Bella e la Bestia. Ancora una volta l’istinto, composto da gesti “selvaggi”, contro la ragione, rappresentata dal becero consumismo occidentale a rimembrarci la reale indole dell’essere umano; cosa noi siamo, o meglio eravamo, nel nostro inconscio e cosa siamo diventati nel moderno e ambiguo concetto di civilizzazione. Zittire l’istinto, l’impulsività, palesa la morte dell’anima. Meglio morire dopo aver lottato, dopo esser saliti lassù con la propria amata, sulla punta di un palazzo, a guardare il tramonto per incrociare un’ultima volta lo sguardo con la Natura, pronti ad urlare e a batterci il petto proprio lì dove il cuore ci ricorda che siamo vivi, mai domi, mai schiavi. Voto – 8.

Quand’ecco la bestia guardò in volto la bella, la bella fermò la bestia. E da quel giorno in poi fu come morta.

lunedì 29 marzo 2010

Alza la testa (Alessandro Angelini, 2009)




Cast: Sergio Castellitto, Gabriele Campanelli, Anita Kravos, Giorgio Colangeli
Genere: Drammatico
Durata: 88’

Esistono lungometraggi che potrebbero essere idealmente divisi tra primo e secondo tempo dando vita a due film diversi. Esempio: se su Artificial Intelligence fossero scorsi i titoli di testa dopo 1 ora e 20, sino allo straziante (!!) abbandono del bambino giocattolo nelle lande desolate, oggi staremmo parlando del più grande capolavoro del XXI° secolo. Invece al tempo Spielberg scelse strade ben più temerarie alla ricerca della fata turchina e della dimensione uman(istic)a del proprio Pinocchio navigando tra parchi avveniristici e cimiteri tecnologici. Lo stesso discorso vale per Alza la testa. Mi ripeto e ripropongo l’ipotesi; se i primi 40 minuti fossero stati dilaniati e protratti alla durata di 90 minuti la seconda opera di Angelini (dopo il bel L’aria salata) sarebbe uno dei migliori film italiani e non del 2009. Perchè? Perché la storia parte nel migliore dei modi; Mero è un ex pugile che scarica sul figlio la responsabilità di riuscire lì dove lui ha fallito, nel mondo plumbeo della boxe. E pur di riuscire nell’intento lo allena, lo accompagna ovunque, lo coccola, lo assilla arrivando a intromettersi anche in questioni sentimentali. Poi a seguito di un litigio col padre, causato proprio dall’ultimo dei suddetti motivi, il talentuoso ragazzo muore cadendo dal motorino. E qui il film si schianta con altrettanta imprudenza. Angelini si tuffa in concetti pericolosi quali trapianti d’organi, immigrazione, eutanasia, transessualità e lo fa con singolare monotonia naufragando nel finale con una scena straniante e fuori luogo. Peccato…!! Castellitto in stato di grazia, bravo nel mostrarci la sottile linea rossa che separa l’inconfutabile Amore Paterno dalle squallide Ambizioni di eguale matrice. Dove finisce l’amore disinteressato e dove inizia la proiezione dell’Ego? Basta affollare un qualsiasi campetto la domenica mattina e vedere gli occhi indemoniati dei genitori a bordo campo infidi nell’improvvisarsi padri-allenatori, gridando, sbraitando, insultando i propri figli e scaricando su di essi frustrazioni e fallimenti patiti in gioventù. Voto – 6.

mercoledì 24 marzo 2010

2012 (Ronald Emmerich, 2009)



Cast: John Cusack, Woody Harrelson, Chiwetel Ejiofor, Amanda Peet, Thandie Newton, Danny Glover
Genere: Catastrofico
Durata: 158’

2 ore e mezza sono eccessive anche per un film di tale “stazza”; soprattutto se ti diverti a riproporre la stessa scena in un noioso refrain. Ci sono ben 4 fuggifuggi fotocopia concentrati nello spazio di un’ora, e in tutti fa da protagonista il volto simpatico e fraterno di John Cusack: a bordo di auto, camper e aerei tra palazzi caracollanti e falle chilometriche. La si scampa da copione per un pelo e a morire sono come al solito i cattivi di turno, grassi, sciatti e troppo arrivisti per escogitare un ponderato piano di fuga. Accantonate in fretta e furia interessanti spiegazioni attinenti al calendario Maya, superate da una teoria sul riscaldamento globale interno, Emmerich si concentra sul lato catastrofico del genere. E nonostante il succoso budget da piluccare avidamente non c’è una sola scena che abbia il potere di stupire. Le eruzioni vulcaniche risultano posticce, gli tsunami appaiono qui e lì come foto scattate di sfuggita (c’è la classica nave in mezzo all’oceano in stile Poseidon) e il crollo di Piazza San Pietro è goffo come un pugile in una balera romagnola. Stranamente il film funziona meglio nella seconda parte dove la salvezza è a portata di mano dei potenti che tentano d’imbarcarsi su arche mastodontiche costruite da stacanovisti cinesi per pochi facoltosi adepti. Da questo punto si susseguono strani riferimenti al Titanic; la calca all’ingresso, lo scontro con una piattaforma di ghiaccio e uno dei protagonisti intento nel sottolineare che le stanze possano ospitare molte più persone del previsto (tipo le scialuppe?). Nel marasma generale tutti i paesi sono chiamati all’appello. E l’Italia che figura ci fa? Beh noi siamo quelli patetici che si riuniscono in preghiera ad ascoltare il Papa mentre la Cappella Sistina ci cade addosso. Voto – 5.

lunedì 22 marzo 2010

Dark City (Alex Proyas, 1997)



Cast: Rufus Sewell, William Hurt, Kiefer Sutherland, Jennifer Connelly
Genere: “Futuristico”
Durata: 100’

Una metropoli oscura in stile Gotham City è sotto il dominio subliminale di una razza di alieni dalla testa ovoidale. Essi, detti Stranieri, allo scoccare della mezzanotte prima modellano tramite poteri soprannaturali la struttura di ogni singola abitazione poi ritoccano le memorie degli esseri umani alterandone i ricordi e di conseguenza l’identità, al fine di capire cosa ci celi alla base dei sentimenti. John Murdoch, accusato dell’omicidio di una prostituta, resiste al trattamento e in balia dei suoi confusi dejà-vu tenta di far luce sul “sistema”. Proyas (Il corvo), ispirandosi palesemente a un romanzo del sempiterno Philip K. Dick (Tempo fuori luogo), sciorina inquietanti dubbi sul concetto di identità visto come null’altro che la somma dei nostri ricordi; lo fa adottando una cifra stilistica intrigante ma forse eccesiva nelle fasi finale quando si lascia andare a un turbinio visivo alla Constantine. Il film sceneggiato da Dobbs, Goyer e lo stesso Proyas anticipa di un anno, nella costruzione di una città artificiale, il tema portante di The Truman Show; lì Jim Carrey cercava disperatamente di viaggiare oltre il suo minimondo, qui Murdoch si domanda cosa ci sia al di là di Shell Beach. Bellissima come sempre Jennifer Connelly e per una volta Kiefer Sutherland sufficiente. Rufus Sewell (The Illusionist) resta invece un attore fortemente sottovalutato nonostante uno sguardo magnetico che dà egregiamente vita agli enigmi di chi è alla vana ricerca di sé stesso. Da vedere. Voto – 7.

giovedì 11 marzo 2010

Polvere (Danilo Proietti e Massimiliano D’Epiro, 2008)



Cast: Primo Reggiani, Gaia Bermani, Gianmarco Tognazzi, Amaral Michele Alhaique
Genere: PopDrammatico
Durata: 90’

Polvere, striscia, pista, come volete chiamarla? Cocaina. A Roma si pippa senza soluzione di continuità, dallo spacciatore al riccone, fino a sfondarsi il cervello e a sommergere i sogni sotto una montagna di coca. Nel frattempo s’ammazza e si tradisce a suon di pop in una giungla di innocenze infrante e morti viventi dove anche la vile ingenuità del fuso Giona soccombe al re dei vizi. E a farne le spese come da copione sono i “principianti”, i neofiti. L’opera prima dell’accoppiata Proietti-D’Epiro, tratta da un libro edito per la casa editrice Albatros-Il Filo, è a metà tra un mockumentary sociale (il personaggio di Primo Reggiani raccoglie interviste e considerazioni nel campo della movida notturna) e un canovaccio standard di Guy Ritchie; le trovate visive non mancano, come i fumetti d’intramezzo all’inizio, e il montaggio “cocainomane” a cui siamo ormai abituati aiuta comunque a restituirci la dimensione sballata del mondo degli assuefatti. Lavoro egregio e volutamente sopra le righe (ci vuole in un panorama cinematografico troppo dipendente dal dramma familiare) supportato da un cast particolare: Gianmarco Tognazzi, Francesco Venditti, Lola Ponce e Rita Rusic. Dal primo all’ultimo out of control. Voto – 7.

domenica 7 marzo 2010

Frankenstein di Mary Shelley (Kenneth Branagh, 1994)

Cast: Kenneth Branagh, Robert De Niro, Ian Holm, Helena Bonam Carter, Aidan Quinn
Genere: Horror + o –
Durata: 123’

Che Kenneth Branagh abbia un ottimo feeling con Shakespeare non è una diceria e gli ottimi Hamlet e Enrico V confermano l’assioma. Ma il discorso è ben diverso quando il regista si cimenta con altri autori. Coprodotto non a caso da Francis Ford Coppola, il Frankenstein di Branagh è fedelissimo al testo di Mary Shelley ma nulla più. Operazione pomposa e “teatrale” alla stregua del Dracula coppoliano (notare come entrambi i film abbiano il nome dell’autore nel titolo – un tocco snob), vive dell’interpretazione incontenibile di un Robert De Niro surclassato da badilate di trucco e silicone. La regia è virtuosamente artificiale e Branagh, sin troppo impegnato a mostrare gli addominali in ogni scena, abbandona immediatamente una sceneggiatura già di per sé sgangherata e insensibile alla natura freak del più famoso dei morti viventi che, come se non bastasse, è noiosamente logorroico. Accorgimenti pacchiani e momenti grandguignol si susseguono all’impazzata; tanto casino e tanti sbadigli compressi in due ore da incubo, dove anche lo spettatore più paziente spera che quella creatura immonda crepi al più presto. Voto - 4

giovedì 4 marzo 2010

Edges of Darkness (Blaine Caide, 2008)



Cast: Annemarie Pazmino, Shamika Ann Franklyn, Alonzo F. Jones
Genere: Horror….
Durata: 100’

In un futuro non lontano la terra è presidiata dagli zombi, flagello divino nel nome della purificazione totale. Uno scrittorucolo barricato in casa e attaccato al suo pc, col quale istaura un legame morboso di cronenberghiana memoria, narra due storielle anch’esse con da sfondo il tema dei “living dead”: nella prima una ragazza tappezzata alla Tomb Raider salva un bambino ignorando che esso possa essere l’Anticristo, nella seconda una coppietta a corto di cibo si nutre di sangue umano ma l’ultima ragazza-pietanza rapita si rivela più “ribelle” del previsto. Altro che B-Movie; qui navighiamo tra le pagine ultime dell’alfabeto cinematografico. Horror da 4 soldi (N.B.: non nell’accezione economica del termine) imbastito su inquadrature grossolane, alcune proprie del cinema hardcore, e dialoghi abominevoli. Eppur qualcuno, tra i quali il sottoscritto, non è del tutto immune al fascino del casereccio. E’ il film che tutti gli aspiranti cineamatori vorrebbero girare nel cortile di casa con zombi che bussano alla porta e/o ammazzano il giardiniere. In questo caso esiste anche una parvenza di budget, probabilmente volatilizzatosi dopo la prima scena nella quale sono stati spesi un bel po’ di soldini per ottimi trucchi e smembramenti splatter. Le sottotrame sono assurdamente innovative per i canoni del genere e tra esse si respira aria di crossover tra morti viventi e missionari pentecostali. Da vedere col sorriso stampato sulle labbra e con quel pizzico di invidia che si prova per un amico che realizza i “tuoi” sogni. Voto: PCV - Per Cinefili Veri.

sabato 27 febbraio 2010

Jennifer’s Body (Karyn Kusama, 2009)



Cast: Megan Fox, Amanda Seyfried, Adam Brody
Genere: Horror
Durata: 98’

Scritto da Diablo Cody (dal nome non si direbbe ma è una donna), vincitrice al primo colpo dell’Oscar per la sceneggiatura di Juno, Jennifer’s Body non è un viaggio ormonale tra le curve di Megan Fox. Jennifer’s Body è un film horror a tutti gli effetti. Protagonista appunto la Jennifer del titolo, mean girl tutta falcata felina e labbra carnose, che per un sacrificio errato finisce per esser posseduta da un demone maligno, assetato di giovane carne umana. Nulla di più facile per Jennifer, mangia-uomini per antonomasia. A farle compagnia in una carneficina adolescenziale la sua amica secchiona Needy (Amanda Seyfried), consapevole della mostruosa trasformazione di Jennifer ma indecisa sul da farsi, fin quando a rischiare la vita non è il suo imbranato fidanzatino. Il film, che ha qualcosa da spartire con horror collegiali come The Faculty e Carrie 2, conserva la struttura narrativa classica dello slasher ed è sorretto da dialoghi frizzanti e battutine mirate a sbeffeggiare alcuni topoi dello showbiz americano. Non un capolavoro, ma il sottotesto goliardico riscatta la linearità di un plot scontato (e nell’horror la banalità è all’ordine del giorno). Traditi tutti i seguaci di Megan Fox, speranzosi di vedere una tetta o un orgasmo coatto (ma una scena lesbo riscatta la parziale delusione). Ben più disinibita Amanda Seyfried (vista in Mamma mia!), bionda rotondetta con un certononsoche che aveva dato prova della sua procacità già in Mean Girl. In piccoli ruoli J.K. Simmons e Kyle Gallner, protagonista di Il Messaggero. Voto 6.5.

lunedì 22 febbraio 2010

Amabili Resti (Peter Jackson, 2009)



Cast: Saoirse Ronan, Stanley Tucci, Mark Walhberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon
Genere: Thriller/Fantasy
Durata: 121’

Tratto dall’omonimo romanzo di Alice Sebold, è la storia della quattordicenne Susie Salmon, vilmente assassinata dal proprio vicino di casa. Catapultata in una dimensione ultraterrena, la “terra di mezzo”, cercherà di aiutare il padre, deciso nello scovare l’omicida. Il talento visivo e visionario di Peter Jackson non si discute (la scena dei galeoni di vetro è straordinaria); l’abbiamo già elogiato in fantasy puri come la trilogia dell’Anello e King Kong. Ma cosa succede quando la magniloquenza di un mondo soprannaturale va a fondersi con le atmosfere di un dramma che pianta i piedi nella triste quotidianità? Il risultato è probabilmente sotto le aspettative. Peter Jackson dimostra di saper gestire entrambi i registri narrativi, ma li lascia colpevolmente correre su due binari paralleli. Manca quindi un’interazione convincente tra le due “realtà”; non bastano i simbolismi tra l’altro spesso trattati con “fantastica” superficialità. La sensazione, usciti dal cinema, è quella d’aver visto 2 film in uno che, presi singolarmente, funzionano benissimo ma che perdono, nell’atto dello sposalizio, metà della propria efficacia. La punta di diamante del prodotto resta però il cast. Saoirse Ronan, accantonata la perfidia di Espiazione, si conferma magnifica mentre un mefistofelico Stanley Tucci si cala in un ruolo lontano dai suoi standard. Aderenti alle parti anche Mark Wahlberg, una fragile Rachel Weisz e l’istrionica, perennemente sbronza, Susan Sarandon. Gli Amabili Resti del titolo sono i legami che vanno a fortificarsi attorno a una scomparsa, perché un’assenza, così violenta, ha il potere di creare un punto di contatto tra animi apparentemente incompatibili. Voto – 6.5.

Vedere o Non Vedere Scusa ma ti voglio sposare??

20 Motivi per i quali NON DOVETE vedere Scusa ma ti voglio sposare

Perché non avete visto il primo (la scusa più usata al mondo)
Perché il regista è quello che ha scritto il libro 3MSC (basterebbe questo!)
Perché nell'altra sala c'è l'ultimo film di Nicolas Cage (ebbene si, a parità "imbrusatura" preferite quello)
Perché Raoul Bova è la dimostrazione vivente che non si può essere belli e bravi allo stesso tempo
Perché la protagonista nonostante non sia una gran gnocca se la tira lo stesso
Perché il cinema pullulerà di coppiette felici e gridolini isterici
Perché Tinto Brass ha già un prequel in cantiere (Scusa ma ti chia*o amore) e se vedete prima questo poi si sballa la saga
Perché guarda caso esce due giorni prima di San Valentino
Perché non è in 3D. Considerando lo “spessore” culturale del film non è nemmeno in 2D
Perché vi hanno detto che ne trarranno un musical
Perché vi hanno detto che ne trarranno un libro
Perché togliendo tutti i rallenti il film dura 8 minuti
Perché nel cinema dove andate di solito non vendono più quelle belle patatine con la salsa messicana
Perché è scandalosamente fuori dalla corsa per gli Oscar
Perché Spielberg l'ha visto di notte sul suo portatile e s'è cagato sotto dalla paura
Perché un'attrice che si chiama Quattrociocche non farà mai strada
Perché dopo aver visto Paranormal Activity non metterai mai più piede in un cinema
Perché se ci vai per cuccare con la tua fidanzata lei prenderà la palla al balzo per metterti a confronto con Raoul Bova (sono cose che gravano pesantemente sull'autostima)
Perché Domenica sera lei ha le sue cose
Perché Domenica sera voi avete le vostre cose: c'è Napoli-Inter

20 Motivi per i quali DOVETE vedere Scusa ma ti voglio sposare

Eh ragazzi per quanto mi sia sforzato non m'è venuto niente!!

sabato 20 febbraio 2010

Giallo (Dario Argento, 2008)



Cast: Adrien Brody, Emmanuelle Seigner, Elsa Pataky
Genere: Thriller/Horror
Durata: 89’

Un titolo, una sentenza. L’ultima fatica dell’Argento nazionale, prodotta circa due anni fa, è un vero e proprio “giallo”; basculante nell’affollato limbo dei prodotti da distribuire. Ignorato in Italia come negli States (dove il regista gode di profonda ammirazione) vanta la presenza di una ragguardevole coppia d’attori; il premio oscar Adrien Brody (Il pianista) e l’intrigante Emmanuelle Seigner (Frantic). Ciò non è comunque bastato. Uscirà in sala? Credo di no. Ma in compenso circola da un bel po’ in rete. Visto in lingua originale col sostegno vitale dei sottotitoli (non ci crederete ma nonostante sia ambientato a Torino tutti parlano in inglese) narra la storia di un Serial Killer itterico (dal colorito, appunto, giallo) che rapisce tramite taxi giovani e innocenti donne. Sulle sue orme Enzo, solitario ispettore tornato da New York, che vive negli anfratti di un commissariato tra foto di ragazze sfigurate e ricordi strazianti. A porlo sulla giusta strada sarà l’irreprensibile vigore di una donna, decisa a ritrovare sua sorella, scomparsa misteriosamente proprio a bordo di un taxi bianco. Dall’Argento post-Opera (1987) non ci si aspetta più nulla di trascendentale ma Giallo è sostanzialmente un film onesto, girato con l’ausilio di un’ottima fotografia e supportato dalla sobria prova del cast; con i piedi per terra rispetto a La terza madre e molto affine nei temi a Il Cartaio. Non sa di scandalo nazionale la mancata distribuzione ma non avrebbe mal figurato al fianco di film ben più deprecabili. Voto – 5.5.
Guida ai luoghi comuni di Giallo
Flashback: perché tutti i detective sono perennemente tormentati dalle immagini di un vecchio omicidio? L’ispettore interpretato da Adrien Brody almeno non è attaccato a una bottiglia di gin.
“Luoghi” comuni: si comincia subito con un bel teatro d’opera, location tipica dei film d’Argento. Perché noi italiani ammazziamo con stile.
Antiche Passioni: ancora una volta Argento mostra il suo antico amore per i vetri frantumati. Efficacemente letali.

mercoledì 10 febbraio 2010

Drag Me to Hell (Sam Raimi, 2009)



Cast: Alison Lohman, Lorna Raver, Justin Long
Genere: Horror
Durata: 99’

Sam Raimi is back. Ammainata temporaneamente la ragnatela posticcia dell’Uomo Ragno (uno dei più sopravvalutati supereroi del decennio), l’unico regista che ha saputo miscelare horror e ironia con singolare sapienza è tornato ai fasti dei primi due capitoli di Evil Dead (La casa). E lo fa affrontando un tema ricorrente, caro a tirati conservatori e aspiranti spendaccioni. La crisi economica c’è o non c’è? Per la gitana Mrs. Ganush c’è, eccome: pur di tenersi stretta la sua casa arriva a prostrarsi a piedi di una banchiera in aria di promozione. Quest’ultima rifiuta il prestito e la fattucchiera dai denti stalattitici (orrendamente brava Lorna Raver) la maledice. E come un incubo destinato a divenir realtà l’anatema va a segno. Da quel giorno la vita della giovane ragazza (adoro Alison Lohman) si trasforma in un perverso calvario: apparizioni improvvise, pranzi obbrobriosi, esorcismi grossolani e sacrifici “domestici”. L’unico modo per salvarsi? Trasferire, tramite un regalo, la propria condanna a qualcun altro. L’horror secondo Raimi non vive di sole atmosfere gotiche e porte cigolanti: si può ridere e rabbrividire a distanza di secondi. Splatter e slapstick deambulano a braccetto. Una scena è già destinata a diventare cult: il morso senza dentiera librato dalla fattucchiera ai danni della povera fanciulla. Che Raimi torni all’horror dei primordi! Ne abbiamo piene le tasche di Tobey Maguire. Voto – 7

Guida ai luoghi comuni di Drag me to Hell
La Fattucchiera Millantatrice (pag.91): nel film di Raimi sciorina il meglio di sé con tanto di pezzuola in fronte, denti mancanti e pagliericcio in testa.
Il Grande Dilemma: perché quando c’è da sacrificare un animale ci va di mezzo sempre un povero gatto?? Maledette credenze medievali…